Conversazione con Beckett

Anne Atik, poetessa nata a Gerusalemme e moglie del pittore Avigdor Arikha, cominciò a prendere appunti.Scavando senza posa nella povertà, nella stupidità, nell’inanità della lingua e della natura umana. Quanto più si avvicinerà alla radicalità dello scacco, tanto più avrà svolto al meglio il suo compito.
di Franco Marcoaldi

 

Indossava con naturale eleganza pantalone beige e maglioni a collo alto grigio – verdi. Da bravo irlandese bevevo quantità spropositate di alcol per poi per poi recitare a memoria i versi di poeti di ogni tempo e latitudine con un uso sapientissimo dei silenzi e degli accenti, lo stesso di cui dava prova quando dirigeva i suoi testi, trattati alla stregua di <<orchestrazioni musicali>>. Era bello come può essere bello un santo, o un falco assorto in se stesso, dallo sguardo dolente e orgoglioso – sguardo perfettamente catturato dai magnifici ritratti di Tullio Pericoli.
La sua generosità verso il prossimo (anche in termini economici) era leggendaria, ma quando si rinserrava nel suo vertiginoso silenzio, gli amici avevano un’unica arma per cercare di rallegrarlo: tirar fuori il Dizionario di Samuel Johnson.
La sua memoria visiva era prodigiosa (ricordava quadri visti anni e anni addietro sin nei minimi particolari) e altrettanto grande e profonda la competenza musicale: in entrambi gli ambiti, naturalmente, le preferenze andavano ad opere che rispecchiavano la propria poetica, fondata sulla costante sottrazione, sulla ricerca dell’assoluta essenzialità. Lettore voracissimo, <<temeva che l’erudizione potesse soffocare l’autenticità di un’opera e non si stancava mai di mettere in guardia gli altri artisti da questo pericolo, avendo dovuto evitarlo egli stesso>>.

Anne Atik, poetessa nata a Gerusalemme e moglie del pittore Avigdor Arikha, <<dopo quindici anni di memorabili conversazioni con Beckett>>, si rese conto che non poteva affidarsi più alla memoria: << l’indimenticabile stava diventando l’irrecuperabile>>. E così, a partire dal 1970 e fino al 22 dicembre 1989 (data della morte dello scrittore irlandese), cominciò a prendere appunti: Com’era. Un ricordo di Samuel Beckett ( traduzione di Giovanna Baglieri, Archinto, pagg. 143, euro 22) è il risultato di quel viaggio à rebours, lungo una frequentazione ultra – decennale intrattenuta dallo stesso Beckett dapprima con il marito Avigdor – scenografo e costumista di tanti suoi spettacoli -, poi con Anne e infine con le due figlie, Alba e Noga.

Accompagnato da nove ritratti del <<magnifico pazzo irlandese >> (secondo la definizione di Joyce) disegnati da Avigdor, oltre che da lettere autografe, appunti dattiloscritti e foto di scena, il libro restituisce con inusitata grazia le relazione intrattenuta con un uomo davvero specialissimo, capace come pochi altri di affondare nell’impasse novecentesca.
E certi episodi di cui il libro dà conto, apparentemente laterali, finiscono per portarci dritti diritti al cuore dell’opera bechettiana. Come quando Anne Atik racconta di una prova del Di’ Joe, interpretato da Billie Whitelaw, a cui aveva assistito al Cafè Francais. <<Sam aveva letto il testo con varie modulazioni, ora sussurrando, ora alzando la voce, con un tono ora derisorio, ora cupo. Le su istruzioni per la Voce (il ruolo di Billie) erano:”Bassa, netta, lontana, poco colorita, flusso un po’ più lento del normale e rigorosamente mantenuto. Pausa tra le frasi di almeno un secondo”, e così via finché, verso la fine, diventarono:”La voce s’abbassa fino a essere appena udibile, a parte le frasi in corsivo un po’ più appoggiate”>>.

Quando toccò a Billie leggere, annota Anne, si udì una voce che <<non sembrava più di donna, ma piuttosto il frangersi delle onde sulla riva, qualcosa che era parte della natura, che si alzava, si abbassava, mormorava. Sentimmo i ciottoli negli scscsc, lo sciacquio dell’acqua, il fruscio sugli scogli, la forza della marea, un boato, le braccia di Billie che si sollevavano e si agitavano quasi stesse dibattendosi nell’acqua>>.
Billie dunque si era trasformata in strumento, addirittura in strumento naturale, perché nel frattempo la parola teatrale di Sam si era trasformata in viva voce. Ecco perché il teatro è in passaggio obbligato del cammino beckettiano; perché Sam vuole che il “cuore” sia visto con gli occhi; e la miseria umana sia espressa da una voce dura e roca che si impasta in una bocca e la rende prigioniera di uno spazio dove sta confitta una creatura che è assieme tutti e nessuno; incarnazione neutra di una parola impersonale e impotente, trascinata dall’ostinato rigore dell’autore in una discesa senza fine verso l’innominabile: <<Non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere niente, né potere di esprimere la volontà. Rimane però l’obbligo, il dovere di farlo>>.

Dà conto di questa inflessibile ricerca quella pagina de L’ultimo nastro di Krapp in cui il protagonista si rende finalmente conto del valore del fondo oscuro da cui eruttano le parole, un precipizio che si è sempre sforzato di tenere a distanza mentre ora ne riconosce la doppia natura di proprio demone e angelo: la <<macchia nera>> da cui non si separerà mai più, quell’ombra vocale capace di salvaguardare l’informe realtà del mondo che la presunzione della lingua costantemente minaccia. Perché soltanto l’epifania di quell’ombra vocale può dar conto della perdita di sostanza che l’intrinseca falsità della comunicazione vorrebbe mascherare.
James Joyce, tanto ammirato dal giovane Beckett, procedeva per addizioni progressive, avanzava il più possibile <<nella direzione della conoscenza per mezzo del controllo sulla propria materia>>, allo stesso modo di un pittore rinascimentale o di un agrimensore. Sam, al contrario, imboccherà una direzione opposta: scavando senza posa nella povertà, nella stupidità, nell’inanità della lingua e della natura umana. Come avrà modo di confidare all’amico americano Lawrence Harbey nel bel mezzo di una delle solite, colossali bevute serali: <<Scrivere significa scendere al di sotto delle superficie>>, verso quell’infido territorio dove dimora << l’autentica debolezza dell’essere>>.

Purtroppo però, a questa esplorazione si associa l’assoluta inadeguatezza delle parole: <<tutto quello che si dice è così lontano dall’esperienza; se scendi davvero verso il disastro, la benché minima eloquenza diventa insopportabile>>.
Ora risulta più chiaro il senso di un suo appunto del 1981: <<Tutto come prima. Nient’altro mai. Provato sempre. Fa niente. Provare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio>>. Sì, per Bechett lo scrittore ha unico dovere: andare incontro al fallimento. Soccombere all’inesprimibile. Quanto più si avvicinerà alla radicalità dello scacco, tanto più avrà svolto al meglio il suo compito.

di Franco Marcoaldi – La Repubblica del 5 ottobre 2007

 

    Redazione
 (07/04/2015)

 

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