Il milanese che parla in me. Milano è una città più mutante di qualsiasi altra città italiana. E il linguaggio era in continua evoluzione. La televisione ha impoverito in maniera incredibile la lingua.
Redazione
Riportiamo un interessante articolo dello scrittore Franco Loi.
Le lingue nazionali nascono in un certo periodo per ragioni sociali, anche per la necessità di unificare le culture. Ma in realtà la lingua è uno strumento che ogni uomo si dà per esprimersi da una parte e per comunicare dall’altra, e quindi non c’è una purezza linguistica, tanto è vero che i dialetti mutano continuamente, per lo meno mutavano continuamente, fino a quando l’uomo aveva un tipo di attività nella società che gli procurava la sollecitazione di tutte le parti creative.
Per esempio: Milano è una città più mutante di qualsiasi altra città italiana. E il linguaggio era in continua evoluzione, tanto che a est di Milano il milanese era più simile al lodigiano,e a nord al brianzolo o al monzesco, a ovest al piemontese, a sud al pavese. Oggi però il milanese non lo si parla più, per un processo di mutamento economico e sociale, molti se ne sono andati e gli immigrati non l’apprendono, apprendono l’italiano.
Purtroppo però non si parla neanche l’italiano, si parla una lingua povera, minima, che serve per scambiarsi le informazioni normali di ogni giorno; non si può più parlare di creatività linguistica.
Mentre il popolo reinventa continuamente la lingua, aggiungendo tutto quel che è attuale alla lingua tradizionale, l’autore ricrea continuamente la lingua recuperando parole ed espressioni non più usate. Questo lo hanno capito molto bene i grandi narratori italiani per esempio Pavese, Pirandello, i quali hanno preso a piene mani dai loro dialetti e hanno arricchito il patrimonio italiano. Se si vanno a vedere i grandi vocabolari del passato si scopre che la ricchezza linguistica viene continuamente aumentata dall’apporto dei dialetti.
Perciò la creazione di una lingua nazionale è stata una pretesa nazionalista, di una politica ideologica di chiusura anche verso i cittadini che ha costruito questa contrapposizione tra lingua e dialetto, in modo falso, e ha anche impedito la possibilità d’espressione dei popoli, tant’è vero che quand’ero bambino io, a scuola si segnavano in blu e in rosso tutte quelle espressioni o vocaboli che uscivano dalla lingua alterata.
Se uno si azzardava a usare un’espressione dialettale era un voto di meno nel tema, per esempio. Ecco, questo è stupido e non c’è alcuna base scientifica. Uno dei più grandi linguisti del passato,Graziadio Ascoli, a 17 anni ha scritto una tesi sulla lingua che è servita di base alla linguistica mondiale, tant’è vero che de Saussure riprende parecchie volte il discorso di Ascoli, il quale era da una parte federalista e dall’altra voleva, nella scuola, far insegnare ai popoli a leggere e scrivere i loro dialetti, cioè: prima di passare all’italiano lui diceva: «Se noi non insegniamo prima a leggere e a scrivere le loro lingue il grande apporto coscienziale della loro vita va perduto».
Prevedeva anche che avremmo avuto una grande difficoltà a fargli recepire l’italiano, come infatti è stato. Gli italiani parlano l’italiano adesso perché c’è la televisione. Non è riuscita la scuola, non sono riusciti i grandi scrittori, non è riuscita l’immigrazione interna, anche perché i meridionali quando venivano a Milano imparavano il milanese.
La televisione ha però impoverito in maniera incredibile la lingua, perché ha un vocabolario veramente ristretto e anche povero dal punto di vista comunicativo. Io a casa mia ho sempre parlato italiano perché mio padre era sardo, io sono nato a Genova, mia madre emiliana, e quindi era normale che si parlasse italiano.
Per strada parlavamo italiano perché eravamo tutti figli di immigrati nella periferia di Milano. Ho invece parlato milanese dai 14 ai 30 anni. Quando mi sono messo a scrivere, scrivevo romanzi, e soltanto a 35 anni ho iniziato a scrivere poesie. Quando ho cominciato a scrivere ho iniziato in italiano perché pensavo che quello fosse il miglior modo per scrivere, e infatti questa lingua la possedevo così bene che con la testa mi mettevo a costruire la poesia, cioè pensavo che la poesia fosse una costruzione intellettuale, e stracciavo tutto quello che scrivevo perché vedevo che nelle mie poesie riportavo poeti come Pascoli e D’Annunzio.
Per fortuna mi è capitato di dover far parlare un personaggio, un giovane operaio milanese, e allora ho detto «non posso farlo parlare in italiano, gli faccio raccontare le sue cose in milanese». Come gli ho messo dentro le parole in milanese, ho scoperto che senza che io lo sapessi, avevo il milanese dentro. È stato come aprire un rubinetto, io dicevo una parola e questa poi mi richiamava immagini, suoni, e questa era una catena di immagini, di associazioni che mi portava e io la seguivo, e allora ho capito anche la poesia. Ho capito il milanese come lingua posseduta dal mio inconscio, e dall’altra parte la poesia, perché la poesia – ecco che arriviamo al punto – la poesia non è un uso della parola, ma è un movimento che suscita la parola. Allora in quel mese di settembre del 1965 ho scritto 119 poesie in 1 mese… Poi, dopo, ho lasciato per cinque anni la poesia, ho fatto altro, politica… tante cose, e nel ’70 mi sono trovato ancora in una situazione di “dover dire”, perché sentivo di essere arrivato a un punto in cui dovevo raccontare e dire quello che avevo dentro.
Siamo abituati a pensare come “memoria” ciò che abbiamo nella testa. I ricordi sono una memoria minima, la nostra memoria è molto più larga; pensiamo a una cosa, molto semplice, a cui si presta poca attenzione: il corpo. Da bambini gli abbiamo detto una volta come si cammina, e lui cammina, perché ha memoria. Tant’è vero che quando non pensiamo al passo che dobbiamo fare, noi camminiamo, mentre invece quando scriviamo pensiamo a quello che dobbiamo scrivere. È una memoria straordinaria quella del corpo e dell’inconscio, i nostri sensi accolgono il dolore, i suoni, accolgono con gli occhi le immagini, accolgono un’infinità di sensazioni che entrano dentro di noi e i centri sensori li accolgono e ne danno memoria. Le nostre emozioni vengono molto spesso provate da noi e poi dimenticate, perché noi siamo abituati a interpretare solo ciò che ci serve, che ci sembra ci serva, ci sembra utile, e allora la memoria memorizza in un certo senso e in una direzione ma tutto il resto rimane però nascosto.
C’è un grande pensare inconscio. E la parola ha uno strano potere, la parola può muovere e far emergere tutto ciò che d’inconscio è dentro di noi, tutto ciò che non è pervenuto alla coscienza. Raccoglie nella memoria dell’essere e fa uscire, lo fa uscire in un modo strano: il pittore attraverso l’immagine, il poeta attraverso il suono, la parola, il musicista attraverso il suono puro, ma il processo è lo stesso. Attraverso questi suoni e queste immagini perviene alla coscienza dell’uomo. Per cui il poeta Yeats diceva che la musica in una poesia, i suoni, hanno più importanza dei contenuti espressi, cioè quelli che noi chiamiamo i contenuti cioè i significati normali delle parole perché i suoni nella loro codificazione hanno tutta una serie di significati nascosti, portano un movimento a loro volta importantissimo, noi ce ne accorgiamo quando ascoltiamo la musica.
Noi non è che sappiamo cosa Mozart ha voluto dire, o Bach, o magari una canzone rock, noi non sappiamo cosa vuol dire e non sappiamo neanche a cosa applaudiamo, sentiamo però che noi ci rinnoviamo dentro e tale movimento lo chiamiamo “emozione”. Il suono ha questa grande facoltà all’interno di un verso. Faccio un esempio, Leopardi dice: «Dolce e chiara è la notte, e senza vento». Se esamino i significati trovo: «dolce», e quindi sarà una giornata di primavera e sicuramente avrà un significato di tepore e di dolcezza. «Chiara», c’è la luna, e la notte è «senza vento», quindi quiete. Quando però noi la ascoltiamo sentiamo «Dolllce, chiaaara è la nottte, e seeenza veento». Più la risentiamo e più capiamo che quella notte incute timore al poeta e non a caso il poeta qui mette una virgola. Si cade in un vuoto, c’è uno sgomento del poeta di fronte alla parola «notte» e quella caduta nel vuoto ci fa ulteriormente pensare all’oscurità della notte, alla paura, al mistero, all’oscurità, ed è interessante vedere che per esempio lui inizia con una «o» e finisce con una «o». Non che Leopardi lo sappia, ma sentendo le sue emozioni segue un percorso musicale. La struttura è retta su tre «o»: «dolce», «notte», «vento». C’è una sola «i» che è quel «chiara» che si eleva, il resto sono tutte «a» e «o». Come mai si è sviluppato questo tipo di sonorità? Perché lui ha seguito dentro di sé le emozioni.
Capiamo che c’è un uso della lingua che è un uso pratico, io lo chiamo pratico/amministrativo, per cui noi usiamo il linguaggio e parliamo con la gente; ma poi c’è un uso diverso. Un uso che la parola fa di noi. Infatti ogni volta che mi domandano, «ma come mai ha usato il milanese?». Io dico: «È il milanese che usa me». Se ci pensiamo, dentro a una lingua c’è l’intelligenza, il pensare, il sentire di un popolo. È sempre il popolo che crea la lingua, non sono i grammatici o i professori, la crea sempre quando, facendo una cosa, si emoziona, e nel farla gli da un nome. Ecco la memoria, in qualche modo viene accumulata dentro di noi e poi da noi esce qualcosa che non pensavamo neanche che ci fosse, perché era nell’acqua oscura del nostro essere. di Franco Lori – http://www.ilsole24ore.com
La Redazione
(18/04/2017)
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