Roma e la Libia: dalla conquista a Giustiniano . Alla Libia nel suo insieme possono ben riferirsi le parole di Erodoto, che evidenzia nel V secolo a.C. le costanti della dinamica storica dell’area. Libia, espressione di due tradizioni culturali, di due realtà politiche e di due identità profondamente diverse.
di Attilio Mastino e Raimondo Zucca
La Libia dai Garamanti a Giustiniano*
1 Introduzione La Libia di oggi è una realtà geografica che comprende quelle che furono le due colonie italiane della Tripolitania e della Cirenaica, con i territori della Sirtica, della Marmarica e del Fezzan che all’inizio del XX secolo le furono aggregati. Il nome Libia è un tardivo recupero dalla tradizione classica, con qualche margine di ambiguità, se la denominazione originaria non designava una realtà geografica univoca e sembra derivare fin dal 3° millennio a.C. dal popolo dei Libi-Lebu, un gruppo di tribù africane (più precisamente cirenaiche) stanziate a ridosso della vallata del Nilo; in seguito il termine fu riferito anche ai territori costieri compresi tra le due Sirti. Più di frequente la Libye dei Greci e dei Romani comprendeva tutto il Nord Africa, Egitto escluso e corrispondeva a quel settore mediterraneo del continente collocato tra l’Oceano Atlantico ed il confine nilotico della Cirenaica; né mancano le fonti che attribuiscono il nome Libye a tutto il continente africano. Il nostro contributo sarà ristretto a quella porzione orientale della Lybie antica corrispondente all’odierna Libia, espressione di due tradizioni culturali, di due realtà politiche e di due identità profondamente diverse, se al suo interno occorre distinguere la Cirenaica ad oriente, di lingua greca a partire dall’epoca della fondazione di Cirene e della Pentapoli, dalla Tripolitania cartaginese e poi romana ad occidente, quest’ultima sostanzialmente di lingua latina; Cirenaica e Tripolitania erano separate dalla Grande Sirte, mitico luogo, pericoloso per i naviganti. In un’opera recente K. Zimmermann ha finemente analizzato le fonti egizie, ebraiche, fenicie e puniche e infine greche e latine relative alla Libia; recentissima è anche l’antologia di Libycà, testimonianze e frammenti, di Gabriella Ottone, dedicata soprattutto alla Cirenaica. Ma voglio ricordare anche i Convegni internazionali de “l’Africa Romana”, arrivati alla XV edizione.
Eppure esiste un filo rosso che nell’antichità legava i due territori: alla Libia nel suo insieme possono ben riferirsi le parole di Erodoto, che evidenzia nel V secolo a.C. le costanti della dinamica storica dell’area: da un lato le popolazioni indigene, perennemente in gioco con i condizionamenti naturali, dall’altro i popoli allotri, fenici e greci, portatori della civiltà urbana. Trattando dei popoli della Libye, Erodoto afferma che «quattro stirpi la abitano e non più di tante, e due delle stirpi sono autoctone due no, i Libii e gli Etiopi autoctoni, che abitano della Libia gli uni la parte verso nord gli altri quella verso sud, i Fenici ed i Greci immigrati».
La nascita del fenomeno urbano nell’area costiera e precostiera libica segnò profondamente il rapporto tra autoctoni e immigrati, consentendo da un lato l’acquisizione da parte delle comunità indigene di elementi culturali mediterranei (in particolare la scrittura alfabetica nelle varianti greca e latina) e favorendo l’integrazione di elementi libici all’interno delle città, dall’altro, con l’acquisizione delle aree più fertili per la costituzione della chora delle singole colonie e la conseguente emarginazione degli autoctoni in aree predesertiche, costituì le premesse di un veemente moto di resistenza che si tradusse in un ciclico sistema di ribellioni e di violente espansioni dei popoli indigeni percepiti come barbari.
Ancora Erodoto è testimone di rapporti tesi tra Greci e indigeni allorquando ci parla dei Libii e di Cirene: «I Libii dei paesi vicini e il loro re, che aveva nome Adicrane essendo stati spogliati di molta terra e vedendosi privati di territorio e offesi dai Cirenei, mandarono un’ambasceria in Egitto e si consegnarono ad Apries re d’Egitto».
2.Geografia mitica della Libia
Dalle Argonautiche di Apollonio Rodio ci è pervenuto un frammento di un mito antichissimo che vedeva esiliata nella Libye l’eroina cretese Acacallide, la figlia di Minosse, destinata a generare (da Apollo) Garamante, il padre di Nasamone. Il mito si appropria di ethne libici che l’etnografia ionica aveva già resi noti: i Garamanti e i Nasamoni, riconducendoli a genealogie divine greche, più precisamente cretesi, così come il nome stesso di Libia è attribuito da Pindaro alla dea moglie di Poseidone (secondo un’altra versione di Tritone), antenata di Cadmo, rappresentata nell’atto di accogliere nella propria reggia dorata la ninfa Cirene rapita da Apollo.
È Erodoto il primo testimone dei popoli della Libia, che gli tratteggia come barbari remoti dalla civiltà greca eppure oggetto di cupido interesse etnografico a partire dai logografi milesi: «Seguono verso occidente i Nasamoni, che formano un popolo numeroso, i quali d’estate, abbandonate le greggi lungo il mare, salgono in un luogo detto Augila, per raccogliere i frutti delle palme. Queste sono numerose e grandi, e tutte fruttifere. Le locuste poi, dopo che le abbiano cacciate, disseccatele al sole le pestano e poi le bevono gettandovi sopra latte. (…) Giuramenti ed arte divinatoria li praticano nel modo seguente: giurano per quelli che si dice siano stati presso di loro gli uomini più giusti e più buoni, toccandone le tombe; esercitano invece la divinazione recandosi presso i sepolcri degli antenati e dopo aver pregato, vi si addormentano sopra: e a quella visione che uno abbia avuto in sogno, a quella si conforma». «Al di là dei Nasamoni verso sud nella regione delle fiere abitano i Garamanti, che rifuggono da ogni essere umano e dal contatto di ognuno, e non possiedono alcuna arma da guerra né sanno difendersi». In un altro passo Erodoto chiarisce che i Garamanti, popolazione assai numerosa, vivono in un’area caratterizzata da un cumulo di sale, che coltivano trasportando terra sul sale.
I topoi utilizzati da Erodoto nella descrizione etnografica dei Nasamoni e dei Garamanti si riscontrano per altre popolazioni barbare. La Libye costituisce il teatro di altri miti ellenici, posteriori, nella cronologia mitica, a Minosse e alla sua figlia Acacallide.
Aristeo, il figlio della ninfa Cirene amata da Apollo, sconvolto dalla morte del figlio Atteone, sbranato dai cani di Artemide per aver contemplato la dea nuda alla fonte Partenia, da Tebe si ritirò in Libia e da lì, su consiglio della madre raggiunse la Sardegna, per rientrare infine in Beozia attraverso la Sicilia. Il mito di Atteone inseguito dai cani di Artemide compare a Cirene nel ciclo pittorico del II secolo d.C. della tomba del veterano Ammonio, studiato di recente. Aristeo, il dio che ha appreso dalle ninfe il segreto della coltivazione dell’olivo e della conservazione del succo del silfio, è raffigurato anche nelle statuette fittili scoperte nel 1910 dal Norton sull’acropoli e presso la necropoli di Cirene e ritrovate recentemente nei magazzini del museo.
Se c’è un tema che ritorna nel tempo è quello della continuità del culto della ninfa Cirene e del suo sposo Apollo kosmokravtwr attraverso i secoli, con le varianti anche più minute di chiara matrice alessandrina ed a noi poco note, con i loro mille volti che hanno rapresentato nella fantasia degli antichi il tema dell’integrazione tra culture e tra civiltà diverse.
La vitalità del mito, il legame con il passato più antico sono una costante della storia della Cirenaica, dall’età del primo fondatore Batto coi profughi terei, all’età tolemaica, fino alla rifondazione adrianea dopo l’allontanamento di alcuni gruppi ebraici, come i Beronicenses arrivati fino in Sardegna.
Gli Argonauti, nel loro viaggio di ritorno, si imbattono nella Libye, la terra bruciata dai raggi acuti del sole, dove Athena sorse dalla testa di Zeus e fu bagnata nelle acque del lago Tritone, non lungi dal giardino delle Esperidi con le sue mele d’oro, protetto dal dragone Ladon, ucciso da Herakles. Questo giardino delle Esperidi libico era noto alla geografia mitica degli antichi (in Plinio) come distinto dall’altro giardino presso Lixus, nel Marocco atlantico. Ancora all’argonauta Eufemo compagno di Giasone venne offerta, sulle coste della Libia, dal Tritone Eurypilos, una zolla di terra libica come pegno del suo possesso, destinato ad essere effettivo con la fondazione terea di Cirene.
Infine la Libye, una generazione dopo gli Argonauti, fu interessata dai nostoi degli eroi achei che avevano combattuto sotto le mura di Troia. Omero nella sua Odissea narra le peregrinazioni di Menelao attraverso Cipro, la Fenicia, l’Egitto e appunto la Libye, dove Erodoto colloca un Menélaos limèn, di fronte all’isola di Platea ad Est di Cirene. In questo settore della Libye Pindaro e lo scoliasta dei Nostoi di Lisimaco di Alessandria conoscono l’insediamento degli abitanti della Troade venuti con Antenore, sicché i Terei al momento della fondazione di Cirene onorarono le tombe degli antenati mitici degli abitanti del luogo recando a loro offerte. Naufragi sulle coste libiche di eroi reduci da Troia sono segnati nell’Alexandra di Licofrone (Guneus, Protheos ed Eurypylos).
Infine si menzionerà lo sbarco avventuroso di Odisseo e dei suoi compagni in un luogo della Libye abitato dai Lotofagi, che ad onta della vulgata identificazione con l’isola di Meninx-Djerba, potrebbe corrispondere genericamente alla vasta fascia libica dei consumatori del loto.
Risulta estremamente complessa l’interpretazione di questi filoni mitici, prevalentemente correlati al settore della pentapoli di Cirene, Berenice, Arsinoe, Ptolemais e Apollonia.
E’merito di Sandro Stucchi, il compianto studioso italiano scomparso, aver evidenziato nella documentazione archeologica cirenea gli elementi che autorizzano l’ipotesi di una correlazione tra il mondo elladico e in particolare minoico e la Libye. Al di là della problematica interpretazione dell’affresco di Akrotiri in rapporto ad una campagna militare minoica in Libye sono i materiali micenei venuti alla luce di recente a Cirene ed a Tocra. Secondo lo stesso Stucchi l’ambientazione più convincente per l’insorgernza del più antico giardino delle Esperidi in terra libica è quella tardo-minoica, allorquando gli abili navigatori mediterranei raccordavano Creta all’Egitto attraverso la costa libica.
D’altro canto ben prima che i Greci di Thera (isola delle Cicladi a N di Creta) fondassero Cirene, la prima apoikia ellenica in terra libica, sul finire del VII sec. a.C., i litorali libici non erano sconosciuti ai Greci. A prescindere dall’epos che a più riprese, come si è detto, si riferisce alla Libye, è significativa l’attestazione di materiali greci, precendenti il livello cronologico della fondazione cirenea che ci riportano all’VIII secolo a.C., nella stessa Cirene (ceramica geometrica e protoattica), ma anche a Tolemaide.
3. I Libii e le colonizzazioni fencia e greca della Libye
Se passiamo alla Tripolitania, il recente volume di D.J. Mattingly analizza partitamente il tribal background delle popolazioni autoctone della Libia, lungo il litorale tra le due Sirti, individuando una gerarchia nel sostrato tribale, sulla base delle fonti antiche e degli studi dei moderni (in particolare il Catalogo dei popoli di Jehan Desanges) articolata in tribù e sottotribù.
Soffermandoci sulle testimonianze più antiche (essenzialmente Erodoto e il periplo di Scilace, che, nella descrizione dei popoli dell’entroterra delle Sirti, risale allo strato più antico della composizione (VI sec. a. C.) possiamo enumerare i Gamphasantes, sottotribù dei Gaetuli, forse della Phazania (Fezzan), i Garamantes del Fezzan, i Gindanes, sottotribù dei Lotophages, i Maces , localizzati sulla costa e a sud-ovest della grande Sirte, estesi fino al fiume Kinyps (Wadi Caam), i Maklhues, sottotribù dei Gaetuli, nella Tripolitania occidentale, i Marmaridae, ai margini della Cirenaica, i Nasamones a sud est della grande Sirte estesi fino all’oasi di Augila, gli Psylli, sottotribù dei Nasamones o dei Maces e i Troglodytes sottotribù degli Aethiopes, dislocati a sud dei Garamantes. Resta inteso che gli etnici documentati in fonti posteriori (ad esempio in Diodoro Siculo, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, Strabone etc.) possono serbare la memoria di populi autoctoni coevi a quelli attestati da Scilax e da Tolomeo, consentendoci di apprezzare un mosaico di ethne libici, dotati di tradizioni specifiche
La gerarchia tribale descritta da Mattingly, sulla base di una impostazione antropologica definita dalle fonti classiche, prevede uno schematico modello di «progressive barbarism» in base alla dislocazione dal Mediterraneo verso l’interno. Così sulla costa sono localizzati i Libyphoenices, popolazione urbanizzata, dedita all’agricoltura e sedentaria, attestata nelle fonti solo a partire da Diodoro Siculo ma connessa ai primitivi stanziamenti fenici almeno dalla metà del VII secolo a.C. Nell’hinterland immediatamente precostiero si hanno comunità pastorali, meno aperte al rapporto con la civiltà costiera, non sedentarie, che utilizzano le capanne, costruite in materiale deperibile, dette nelle fonti classiche mappalia: una sorta di tuguri, le caratteristiche capanne allungate, coperte da pareti ricurve,costruite secondo il mito con l’impiego delle chiglie delle navi di Eracle. Ancora più all’interno sono attestati i popoli «barbarici» (nella visione ellenocentrica degli antichi), quali i Garamantes, gli Augilae, gli Aethiopes. Gli ulteriori due livelli di questa gerarchia, tramata sulle fonti antiche, annoverano rispettivamente i Troglodytae che condurrebbero una vita sotterranea e i Blemys e i Satyres, popoli ormai fantastici.
Il volume di Mattingly definisce sulla base di una rigorosa analisi della documentazione letteraria, epigrafica e archeologica i quadri culturali dei singoli ethne autoctoni della Libia, evidenziando innanzitutto la dinamica dei popoli, anche di quelli più interni, anelli di congiunzione di direttrici di scambio sia materiale sia, genericamente, culturale tra est e ovest e tra nord e sud.
Può essere esemplare il caso dei Garamantes, che utilizzavano merci importate dall’Egitto, quali vetri alessandrini e faïences, dalla Grecia e dal mondo greco, in particolare ceramica a vernice nera del IV sec. a.C. ed ellenistica, da Roma e in specie dalla provincia dell’Africa (aretina, sigillate africane, anfore italiche e africane etc.). Le correnti commerciali in senso nord/sud e viceversa si connettono direttamente alla questione del commercio trans-sahariano: la documentazione epigrafica di Bu Njem (Gholaia) attesta la transazione commerciale di nigri publici, di schiavi negri, evidentemente tradotti dalle regioni meridionali degli Aethiopes. Ancora al Sudan ci richiama l’acquisizione di specie animali esotiche, come il Rhynoceros bicornis che fece la prima comparsa a Roma nel 92 d.C., a seguito della spedizione di Giulio Materno a sud del Fezzan.
La documentazione archeologica delle culture autoctone della Libia va progressivamente aumentando, dopo le meritorie esplorazioni di Paolo Graziosi, tese alla conoscenza dell’arte rupestre delle aree desertiche della Libia e le ricerche preistoriche inglesi degli anni cinquanta del secolo scorso: in questa sede ci limitiamo a citare le indagini stratigrafiche di Santo Tiné sul suolo di Cirene, che hanno evidenziato ceramiche anche decorate ascrivibili all’insediamento indigeno prebattiaco, antecedente cioè alla fondazione di Cirene e le prospezioni territoriali coordinate da D. Mattingly nell’ambito del progetto UNESCO di prospezione archeologica nelle vallate della Libia.
L’urbanizzazione della Libye, nel senso limitato del coronimo assunto in questa sede, è dovuta ai Fenici e ai Greci, come messo in luce dallo stesso Erodoto. Secondo Sallustio Lepcis, detta Magna in comparazione alla Leptis minus della Byzacena, sarebbe stata fondata da Sidonî o piuttosto da Tirî. Lo stesso Silio Italico qualifica tiria Sabratha, mentre Oea, l’attuale Tripoli, sarebbe stata fondata da coloni siciliani (evidentemente fenici) insieme ad africani: Oeaque Trinacrios Afris permixta colonos.
La documentazione archeologica relativa alle fasi iniziali dell’insediamento fenicio di Lepcis è, benché scarsa, sicura: si tratta di strutture e ceramiche fenicie e greche risalenti alla metà del VII sec. a.C. individuate in sondaggi stratigrafici del forum vetus. Tali dati rendono superflua l’ipotesi di abbassamento della cronologia della fondazione fino al VI secolo con la relativa attribuzione della ktisis a Cartagine. Del resto le divinità poliadiche di Lepcis, Shadrapa e Milkashtart, continuate in età romana in Liber pater e Hercules, e il dio El Qoné Ares, reinterpretato come Neptunus, sembrerebbero filiazione diretta di un pantheon fenicio orientale.
Il problema più rilevante è, comunque, quello di una eventuale ktisis orientale ad opera dei Fenici nel VII secolo a.C., epoca in cui la grande colonizzazione fenicia in Occidente non sembra più attiva, anche in relazione alle vicende storiche delle città della Fenicia. Parrebbe pertanto opportuno sospendere il giudizio sulla data della fondazione di Lepcis senza escludere che future ricerche saldino la cronologia della fondazione lepcitana a quella delle principali apoikiai fenicie d’occidente, risalenti alla fine del IX secolo a.C., come sembrerebbero suggerire i dati letterari relativi ad Auza in Libye (non identificata), a Cartagine ed ad Utica, e le datazioni al C14, ricalibrate con la dendrocronologia, dei primi stanziamenti dell’Iberia meridionale.
Per quel che concerne Oea e Sabratha i dati archeologici non paiono risalire oltre il V sec. a.C., sicché dai più si è ammessa una fondazione cartaginese. Tuttavia il riferimento di Silio Italico, seppure in un contesto poetico, ai coloni Trinacrii misti agli Afri come autori della deduzione di Oea, potrebbe far pensare a colonizzazione secondaria a partire da un centro fenicio della Sicilia, al pari dell’Acholla tunisina che secondo Stefano di Bisanzio sarebbe stata fondata da Fenici provenienti da Melita.
La cultura semitica permeò profondamente queste fondazioni, che risultano, anche dopo la caduta di Cartagine, puniche nella lingua, nella scrittura, nei culti (come mostra il tofet di Sabratha), per quanto il loro carattere emporico dovette agevolare la fusione di elementi culturali soprattutto greci ma anche indigeni all’interno della dinamica culturale semitica.
I tre insediamenti fenici della Tripolitania costituirono la regione degli Emporia del dominio Cartaginese, aperta ai traffici con la stessa Cartagine ma anche con la Grecia continentale, come sembrano dimostrare le importazioni attiche registrate negli Emporia e alla nota affermazione di Gelone, tiranno di Siracusa, rivolta agli ambasciatori ateniesi e spartani, di avere essi avuto dagli Emporia in mano cartaginese «grandi vantaggi e utilità». La cura particolare dedicata da Cartagine a questi Emporia emerge anche dal commento di Polibio al testo del primo trattato fra Cartagine e Roma del 509 a.C., dal quale si può desumere che i Romani potevano avere accesso agli Emporia alle stesse condizioni del commercio amministrato dagli Araldi e dagli Scribi in Sardegna.
La difesa di precisi interessi economici impose a Cartagine un’alleanza con il popolo indigeno costiero dei Maces per arginare l’intraprendenza commerciale (forse anche in termini piratici) della fondazione laconica di Kynips, operata da Dorieo in Libye, nel penultimo decennio del VI sec. a.C., una ventina di chilometri a oriente di Lepcis Magna. La conseguente distruzione della apoikia greca, durata solo tre anni, segna la volontà della metropoli africana di rafforzare il proprio sviluppo economico in terra d’Africa.
I coloni spartani di Thera, seguendo un oracolo, avevano fondato nel 631 a.C., dopo gli effimeri insediamenti dell’isola di Platea e di Aziris (sulla costa della Marmarica), la grandiosa apoikia di Cirene, su un altopiano che guarda il mare, là dove, dice Erodoto, esisteva un foro nel cielo, tale da assicurare un regime di piogge destinato a consentire una perenne fertilità a Cirene e alla sua chora. Il fondatore di Cirene, Aristotele Batto, resse la nuova città per quarant’anni, dando avvio a una dinastia di sovrani, alternativamente chiamati Batto e Arcesilao.
La storia della città, documentata da fonti letterarie ed epigrafiche, è scandita dal crescente conflitto tra i sovrani battiadi e il forte potere aristocratico, cui si aggiunsero le ribellioni dei Libii, sfociate nella tragica sconfitta cirenea di Leucone nella Libia orientale. A tale conflitto non pose rimedio la riforma costituzionale di ispirazione delfica di Demonatte di Mantinea, che limitava il potere regio a vantaggio del demos dei proprietari terrieri. Il nuovo re Arcesilao III, rivendicando i pieni poteri, fu costretto all’esilio, ma una volta tornato in patria non rinunciò al massacro dei propri nemici, e finì assassinato nella nuova residenza di Barce, la città rivale. La madre del re ucciso, Feretime, cercò allora l’alleanza con i Persiani, che produsse la distruzione di Barce. La decadenza del potere persiano comportò l’indebolimento del nuovo re Batto IV e il rinnovato vantaggio degli aristocratici: a illustrare questi oscuri conflitti è per noi la poesia di Pindaro che, ospite alla corte cirenea, cantò le vittorie del re nella corsa con i cavalli. Nel 440 l’ultimo sovrano di Cirene trovò la morte nella città di Euesperide, poi Berenice.
Da allora fino all’ascesa di Alessandro Magno inizia il periodo di maggior splendore per Cirene, retta da una costituzione aristocratica ove la carica maggiore era ricoperta dal sacerdote di Apollo e il potere politico e militare era in mano a cinque strateghi. La paideia dei giovani cirenei è assicurata dalle istituzioni ginnasiali, sicché, con le parole del compianto Lidiano Bacchielli, possiamo riconoscere in Cirene e nella Pentapoli un’isola di grecità stretta tra le sabbie del deserto e la perigliosa Sirte maggiore.
Lo splendore architettonico degli edifici dell’Agorà e del santuario di Apollo a Cirene si colloca nella seconda metà del V secolo a.C. e nei primi decenni del IV. Le risorse agricole della chora, i commerci assicurati dal porto di Cirene, Apollonia, e dagli altri centri greci, le rinnovate vittorie sui Libi, quali quelle sui Maces e sui Nasamones menzionate in un’epigrafe ed infine i limiti territoriali con l’eparchia cartaginese fissati alle Arae Philaenorum, là dove la tradizione vuole sepolti i gemelli Fileni, uccisi dai loro due avversari Greci, documentano la straordinaria stagione di una città greca della Libye: questo è il tempo dei medici, dei filosofi, dei matematici e dei letterati cirenei.
Cirene farà atto di sottomissione ad Alessandro Magno, ma mantenendo la propria autonomia cittadina. Solo nel 321 i Cirenei furono privati dell’indipendenza da Tolomeo I, che pure avevano chiamato in soccorso contro Tibrone. Il nuovo statuto costituzionale assicura a Tolomeo la carica di stratego a vita. Nel 300 è inviato a governare Cirene Magas, figlioccio del sovrano egiziano: questi riuscirà a far unire la figlia di quella Berenice immortalata da Callimaco, il poeta nativo di Cirene, con l’erede al trono d’Egitto Tolomeo III Evergete I, unificando così la Cirenaica all’Egitto, fino alla morte di Tolomeo Apione che lascerà, nel 96 a.C., in eredità la Cirenaica a Roma, rinnovando la volontà di Tolomeo VIII Evergete che aveva designato nel 155 il Popolo Romano come erede della Cirenaica.
4. Roma e la Libia: dalla conquista a Giustiniano
La Libia, come è ben noto, non costituì mai, durante il dominio romano, un territorio unitario: il vasto entroterra desertico interposto tra la Tripolitania degli Empori e la Cirenaica della Pentapoli e la lutulenta Gran Sirte rappresentavano, rispettivamente, la cesura terrestre e marittima dei due territori: non casualmente, infatti, essi seguirono destini differenziati, sia cronologicamente, per quanto attiene i tempi dell’annessione da parte di Roma, sia amministrativamente, per quanto concerne la redactio in formam provinciae.
L’area occidentale della Libia, quella degli Empori fenici, seguì il destino di Cartagine, fino alla pace del 201 a.C., successiva alla vittoria di Scipione su Annibale a Zama. La clausola di quel trattato che assicurava a Massinissa, Re della Numidia, la cessione di quei territori che i Cartaginesi avessero usurpato ai suoi antenati, mise fortemente in dubbio il possesso cartaginese degli ambitissimi Emporia. La ferma volontà di Cartagine di opporsi alle rivendicazioni arbitrarie di Massinissa condusse ben presto alla terza guerra punica e alla conseguente (nel 146 a.C.) distruzione di Cartagine. I Numidi ebbero così ratificato il loro possesso della regione degli Emporia. Nel corso del Bellum iugurthinum Lepcis Magna, già al tempo dello sbarco di L. Calpurnio Bestia in Africa, ebbe dal senato romano il rango di civitas foederata ed ottenne, sotto Metello, un presidio di quattro coorti di Ligures. Ma, nonostante ciò, l’annessione degli Emporia a Roma sarà conseguenza diretta del bellum Africum di Cesare nel 46 a.C. e della costituzione della provincia dell’Africa nova. Intanto Lepcis Magna, per aver aiutato Catone in tal frangente, dovrà piegarsi al pagamento di una ingentissima multa al vincitore (3 milioni di libbre d’olio).
Con Augusto la fusione delle due provinciae dell’Africa vetus e nova nell’Africa proconsularis raccorderà, nuovamente, gli equilibri economici e culturali degli Emporia alla rinata Cartagine separando definitivamente la Tripolitania latina dalla Cirenaica greca, provincia autonoma assieme Creta: sono gli anni della resistenza libica e delle operazioni militari contro le popolazioni delle Sirti concluse con trionfi, come la spedizione dello spagnolo L. Cornelio Balbo contro i Garamanti del Fezzan voluta da Augusto nel marzo del 19 a.C., quella di Cosso Cornelio Lentulo contro i Getuli nell’8 d.C., di Q. Giunio Bleso e di P. Cornelio Dolabella durante il regno di Tiberio nella repressione della rivolta di Tacfarinas.
Lo sviluppo delle città della Tripolitania, Lepcis Magna, Sabratha e Oea, fu di straordinaria intensità, agevolato dal ruolo economico rivestito dai rispettivi porti in funzione delle produzioni olearie e di altri beni.
Lepcis Magna godeva dello statuto di civitas libera presumibilmente dal periodo augusteo. La civitas era amministrata da sufeti, come apprendiamo da documenti epigrafici a partire dal I sec. a.C. La radicata cultura punica della città fece sì che all’atto della concessione dello statuto municipale a Lepcis, sotto Vespasiano, verso il 74 d.C., non venisse abolito il sufetato ma si realizzasse quell’originale municipium sufetale, amministrato dai sufetes che appaiono attestati ancora agli inizi del II sec. d.C. Solamente all’atto della costituzione della colonia Ulpia Traiana fidelis Lepcis Magna entro il 110 d.C. i sufeti furono sostituiti dai duoviri. Finalmente sotto Settimio Severo Lepcis, al pari di Utica e di Cartagine, ricevette il prestigiosissimo riconoscimento dello ius italicum, in occasione del reditus dei Severi in urbem [s]uam.
Il ruolo assolto dal più illustre figlio della città, Settimio Severo, a favore dell’ornatus civitatis di Lepcis e del nuovo porto artificiale è stato rivelato dall’archeologia, soprattutto in relazione al Forum Novum Severianum ed alla basilica, che denunziano l’altissimo livello della committenza sia nell’utilizzo di qualità eccellenti e varie di marmi, sia e soprattutto per il decoro scultoreo. È noto che a Lepcis Magna su oltre 80 basi onorarie inscritte conosciute, almeno la metà sono state offerte a membri della domus divina di Settimio Severo, conservator orbis, che compare con il figlio Caracalla, propagator imperii, Geta, Giulia Domna, Plautilla, Plauziano. Non si dimenticano Paccia Marciana, Septimia Octavilla, Septimia Polla, P. Septimius Geta fratello di Settimio Severo. Ma conosciamo inoltre tutta una serie di ascendenti, come il padre di Settimio Severo P. Septimius Geta, la madre Fulvia Pia ed il nonno L. Septimius Severus, che un’iscrizione ricorda come praefectus con Traiano già nel 109, quando per la prima volta fu introdotta a Lepcis la cittadinanza romana: praef(ectus) publ(ice) creatus cum primum civitas Romana adacta est. L’origine africana della famiglia appare ormai acquisita: del resto decisamente insuperabili rimangono le espressioni di Stazio, che esalta l’amico lepcitano, il nonno di Settimio Severo, un cavaliere – iuvenis inter ornatissimos secundi ordinis – che aveva trascorso a Lepcis la sua infanzia e si era trasferito poi in Etruria: Italus, Italus, non più punico per lingua, aspetto e mentalità.
Con la nascita della Regio Tripolitana, circoscrizione della res privata sorta per la gestione dei latifondi che la gens Septimia possedeva da tempo, notevolmente incrementati alla morte di Clodio Albino e di Plauziano, l’area si avviava verso una forma di autonomia che sarebbe stata riconosciuta da Diocleziano con la nascita della nuova provincia e Lepcis diventava la capitale di un territorio più vasto, confinante con il tractus Biz[acenus], una circoscrizione della res privata definita da Settimio Severo dopo l’istituzione di un apposito procurator ad bona cogenda in Africa. Una traccia della localizzazione di alcuni latifondi della res privata dei Severi è stata individuata da Tadeusz Lewicki, per il quale il nome dei Severi potrebbe essersi perpetuato in due toponimi conosciuti dalle fonti arabe già dall’XI secolo nelle vicinanze di Tripoli, Bani as-Sabiri ed as-Sabiriyya.
Il ruolo di Settimio Severo, l’imperatore africano, sarà oggi presentato ampiamente dal prof. Mohamed Jerary; consentitemi però di ricordare che la constitutio antoniniana de civitate del figlio Caracalla forse volle rispondere alle più profonde attese dei provinciali ed in particolare degli africani, ammessi in blocco a godere della cittadinanza romana.
Sabratha dovette essere incorporata nella provincia come oppidum peregrinum. Il rango di civitas libera, documentato dalle emissioni monetali, poté essere raggiunto in età augustea, probabilmente in contemporanea con Lepcis Magna. L’attestazione del sufetato della civitas è costituita esclusivamente da emissioni monetali in bronzo di età augustea con legenda punica, recante il nome della città e l’abbreviazione dei nomi dei sufeti eponimi. La suddivisione del populus in curiae, una delle quali detta Hadriana, l’altra Faustina, inducono a ritenere che lo sviluppo istituzionale della civitas fino al rango di colonia onoraria, attestato in due iscrizioni, sia riportabile al principato di Antonino Pio o, meglio, a quello di Marco Aurelio.
Oea divenne civitas libera sotto Augusto, battendo moneta e conservando la propria autonomia almeno fino ai primi decenni del II sec. d.C. Al tempo di Apuleio era forse già municipium e sicuramente nel 183 aveva maturato il rango di colonia.
Questi quadri di sviluppo delle città della Tripolitania non devono però leggersi in senso astorico, poiché il combinato riscontro delle fonti letterarie, epigrafiche ed archeologiche consente di stabilire divergenti momenti di affermazione delle città, aspri conflitti intercittadini e rovinose decrescite a causa di eventi naturali (i terremoti del IV secolo) o di scorrerie delle popolazioni indigene.
Qui si potrà ricordare l’esplosione del conflitto tra Oea e Lepcis nel 69 d.C., con l’intervento dei Garamanti a fianco dei Lepcitani contro gli Oenses e il definitivo ristabilimento dell’ordine da parte della legio III Augusta. E ancora nel IV secolo le ripetute incursioni dei barbari Austoriani a danno di Oea e Lepcis e il conflitto che oppose Lepcis al conte d’Africa Romano ed all’imperatore Valentiniano I.
Sotto Diocleziano, in una data ancora discussa fra gli studiosi, la Tripolitania divenne una provincia autonoma distaccata, in contemporanea con la Byzacena, dall’Africa Proconsularis. È appena il caso di notare che la nuova provincia abbracciava anche un settore dell’odierna Tunisia meridionale con i centri di Tacapae, Girba nell’isola omonima (antica Meninx) e Gightis.
Il tardo impero, accanto a un’ininterrotta floridezza economica dovuta principalmente alle esportazioni olearie nelle anfore tripolitane diffuse nel bacino del Mediterraneo, annovera una serie di punti di crisi: il principale è senz’altro da riconoscersi nel perenne pericolo assicurato dalle scorrerie delle popolazioni nomadi al di là del limes tripolitanus. Se è vero che il limes non chiude ma costituisce un passaggio, è anche vero che lo sforzo militare che Roma dovette espletare per assicurare il passaggio economico tra il Sahara e il Mediterraneo fu intensissimo e, dunque, in grado di condizionare negativamente gli equilibri economici e sociali della regione. I Vandali giunsero nella Tripolitania tardivamente, forse solo dopo il 455, mentre la riconquista giustinianea si pone nel dicembre 533 con la battaglia di Tricamarum. La Tripolitania farà parte della prefettura del pretorio d’Africa, affidata ad un consularis.
Differente fu il destino amministrativo e culturale della Cirenaica, dopo il testamento di Tolomeo Apione che lasciava in eredità il regno al popolo romano. L’organizzazione provinciale fu attuata, in forme originali, solo a partire dal 74 a.C., benché si ignori effettivamente in quale momento si sia costituita l’unione tra Creta e Cirene nell’unica provincia, attestata comunque nella forma Creta et Cyreanae tra i territori pacificati lasciati da Augusto al Senato nel 27 a.C. Tale unità non deve stupire poiché appena 162 miglia nautiche separano la costa cirenaica da Creta, mentre la navigazione lungo la Grande Sirte verso Occidente rappresentava un costante pericolo a causa dei bassi fondali, sicché in genere essa fu evitata dalle rotte dell’antichità.
Uno dei cespiti più rilevanti che Roma ottenne dalla provincia, nei primi tempi dell’amministrazione, fu il silfio, la pianta cirenea già celebre al tempo della fondazione battiaca ed utilizzata soprattutto nella farmacopea. Ma in età giulio-claudia vari fattori ne avevano causato la quasi completa estinzione,m tanto è che Nerone ne ebbe un esemplare rarissimo ad prezzo incredibilmente alto. Non possiamo, tuttavia, enfatizzare il ruolo del silfio nell’economia cirenea, poiché sia l’allevamento, sia l’agricoltura, sia il commercio, anche transahariano assicuravano uno sviluppo economico alla Cirenaica in età imperiale. Gli scavi hanno messo in luce la fase di monumentalizzazione augustea di Cirene in sintonia con l’interessamento mostrato dal princeps a favore dei Cirenei, come riflesso dai celebri editti di Augusto del febbraio del 6 a.C., che come è noto trattano la materia giudiziaria nell’ambito dei conflitti tra gli Hellenes e i Romani della città. La documentazione epigrafica consente di verificare come gli istituti cittadini stabiliti nel diagramma di Tolomeo I si fossero col tempo parzialmente modificati, benché l’eponimia continuasse a spettare al sacerdote d’Apollo.
André Laronde ha intitolato un capitolo del suo studio sulla Cirenaica romana «La tragique et brillante époque des Antonins et des Sévères», sottolineando come i violenti bella iudaica, peraltro già avviati al tempo di Traiano, comportassero un’effettiva stagione di rovina e di distruzione delle città della Cirenaica, ed in particolare di Cirene, dove l’odio degli Ebrei si abbatté sui monumenti simbolo della città greca e romana: dal tempio di Zeus, a quello di Apollo, dalle terme di Traiano all’Agorà, un’opera sistematica di demolizione colpì l’antica città. I provvedimenti di Adriano, dapprima sul piano militare, quindi con la ricostruzione fecero dell’imperatore il vero restitutor Libyae delle monete.
Diocleziano, nel quadro del riordino dell’amministrazione provinciale, suddivise la Cyrenaica nelle due provinciae della Lybia inferior o sicca e della Lybia superior o Pentapolis, attribuite alla Diocesi d’Oriente. La decadenza della Cirenaica in età tardo antica non pare solamente frutto di artifici retorici nel vasto affresco che della sua terra ci dona il vescovo cireneo Sinesio, l’ultimo faro di civiltà classica in una città ridotta all’estrema rovina. Non si ha comunque ricordo di conquista vandala della Cirenaica e d’altro canto possediamo nel decreto di Anastasio I norme relative all’amministrazione militare della Cirenaica.
Giustiniano con l’editto de dioecesi Aegyptiaca del 538 riunì le due provinciae della Libya in una sola, retta da un dux, residente a Paretonio, con un iudex cui era demandata l’amministrazione civile.
Procopio e Corippo sono le nostre principali fonti d’informazione sulla situazione delle città e delle campagne della Cirenaica: fortificazioni sorsero dovunque poiché l’azione violenta degli autoctoni ancora pagani si manifestava ormai alle porte delle città.
Sfilano davanti a noi i nomi antichi e nuovi di popoli del deserto che in una vicenda di «lunga durata» si sono fieramente opposti in una resistenza attiva alle culture greca, fenicia, romana.
Ma questa «resistenza» scandita dalle parole delle fonti letterarie, delle epigrafi e dall’archeologia militare è accompagnata, in forme differenziate, da evidenti fenomeni di acculturazione che la ricerca contemporanea evidenzia alle porte del deserto e ben oltre verso quei territori che Plinio e altri autori antichi popolavano di esseri fantastici. La lunga vicenda storica si schiude poi al mondo dell’Islam.
* Testo della comunicazione presentata dal prof. Attilio Mastino, prorettore dell’Università di Sassari, che ringraziamo per le gentile concessione, al Convegno internazionale “La Libia nella storia del Mediterraneo” svoltosi a Roma dal 10 al 12 maggio 2003, promosso dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente di Roma e da “Libyan Studies Centre” di Tripoli.
Fonte: infomedi.it
di Attilio Mastino e Raimondo Zucca
(28/02/2011)
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