Krystian Lupa, Thomas Bernhard e la rovina degli artisti. “Des Arbres à abattre “Da anni ormai Lupa fa preparare ai suoi attori lunghi monologhi interiori, flussi della loro coscienza, compositi e privi di controllo.
di Tommaso Zaccheo
Bernhard, “ Des Arbres à abattre” . “Ogni essere umano ha bisogno di un cappotto, perché, altrimenti, si gela in inverno, e il mondo è una specie di inverno.” Thomas Bernhard pronunciò questa frase durante un’intervista con Krista Fleischmann, prima del 28 agosto 1984. In questa data il tribunale di Vienna ordinò il ritiro di tutte le copie del romanzo “Holzfällen. Eine Erregung ». L’edizione italiana (Adelphi, 1990) ha scelto come titolo per questo romanzo “A colpi d’ascia” e come sottotitolo “Un’irritazione”. L’edizione francese (Gallimard, 1997) invece traduce “Holzfällen” come “Des Arbres à abattre”. Identica la traduzione del sottotitolo, “Une irritation”. Entrambe le traduzioni, però, non danno il giusto valore al termine “Erregung”, il quale porta in sé un significato di movimento, di scontro ma anche di emozione ed eccitamento sessuale.
In più di duecento, impetuose, irritate ed eccitate pagine, Bernhard, con un gioco di specchi, rappresenta il circolo degli intellettuali viennesi più in vista, più premiati e più vuoti. Nello sprofondare nella loro laida, deprimente e falsa esistenza, Bernhard li abbatte. Lo specchio deformato riflette una verità altrettanto deformata, irritante nella sua esagerazione, eccitata dal gusto perverso dell’annichilimento, dell’annientamento sistematico di questa piccola comunità umana, della quale anche il narratore, in fondo, fa parte. E della quale in fondo è complice.
Bernhard non fa altro che descrivere come “la palla di neve della stupidità”, una volta lanciata dalla montagna, prenda forza diventando una gigantesca valanga che “distrugge tutta Vienna. Forse è più grande di Vienna”. Questi uomini e donne, artisti una volta puri, ambiziosi e radicali, non hanno saputo resistere alla tentazione della stupidità, della meschinità, della ricerca di un’affermazione sociale e di un riconoscimento pubblico che passa attraverso un asservimento al potere e alle istituzioni.
La loro coscienza, sotterrata dalla valanga della banalità, e la loro condizione di vuoti involucri privi di sostanza è chirurgicamente, sadicamente vivisezionata da Bernhard, lucido narratore della presente rovina di questi geni, in virtù del suo stato di testimone della loro passata genialità.
Nel volume “Utopia. Lettres aux acteurs” (Actes Sud, 2016) il regista polacco Krystian Lupa afferma che “tutto il teatro, questo racconto di una vita, è lì perché io mi confidi, perché io tragga una verità da me, una verità che sgorghi dalla mia propria vita, dal mio pensiero verso l’altro, dal mio jeu…”. Il suo adattamento di “Des Arbres à abattre” si struttura come un labirintico gioco di sguardi riflessi. Per tre fattori principali. Primo, il rapporto tra Lupa e Bernhard. Tra lui e il romanziere austriaco il legame è forte: “Thomas Bernhard mi abita ostinatamente” ha affermato Lupa in un’intervista rilasciata a Jean-François Perrier. Secondo, il particolare metodo di lavoro sugli attori del regista polacco. Terzo, il metodo col quale l’adattamento è stato concepito e poi montato.
Per quest’affinità profonda, lo spettacolo, in questi giorni al Théâtre de l’Odéon di Parigi per il Festival d’Automne, può esprimere tutta la sua forza di macchina illusionistica e di casa degli specchi. L’universo plasmato dallo sguardo feroce di Bernhard è fatto proprio da Lupa. Egli lo accetta, vi penetra senza esitazione e poi sa restituirlo al pubblico nella sua lucida contraddizione.
Senza un lavoro pluridecennale sull’autore austriaco, questa chiarezza sarebbe impossibile. L’opera di Bernhard, è bene ricordarlo, è ambigua. E la lettura di Lupa non solo rispetta questa ambiguità, ma anzi ci gioca, la esaspera, la mette in mostra fino a sovrapporre chiaramente la sua voce, la sua lettura e il suo commento al corso dello spettacolo.
In alcune scene salienti, nella seconda parte dello spettacolo, sentiamo distintamente la voce di Lupa intervenire sulla scena. Ora per dare il tempo ed il ritmo a scene concitate, marcando con versi ritmici l’andamento dello spettacolo, ora commentando, con domande e frasi brevissime e sussurrate, gli avvenimenti rappresentati. Egli sembra, così, dirigere da lontano i suoi attori, proprio nello svolgersi della rappresentazione. Con la sua voce, lui è lì, in mezzo a loro. Questa presenza imposta agli attori – e comunicata al pubblico – è meno sorprendente se pensiamo alla sua concezione di “direzione degli attori” e a come lavori con e grazie a loro.
Da anni ormai Lupa fa preparare ai suoi attori lunghi monologhi interiori, flussi della loro coscienza, compositi e privi di controllo. Lo strumento del monologo serve affinché essi possano accedere alla loro parte incosciente e profonda. Molti degli esercizi proposti da Lupa richiedono di fissare su carta questi flussi, in una forma il più fedele possibile all’“originale” pensato. Questi stralci di IO dell’attore, della sua memoria e del suo passato, andranno in seguito a nutrire il corpo e le parole del personaggio interpretato.
Per “Des arbres à abattre” il lavoro di training su ogni singolo attore si è coniugato con un lavoro collettivo di adattamento. Il romanzo originale non è trasposto a tavolino da una forma letteraria, quella romanzesca, ad un’altra forma letteraria, quella drammatica.
Il vero lavoro di adattamento è stato compiuto durante le prove e con gli attori, racconta Lupa. Essi hanno scavato i propri personaggi nella materia grezza ed indistinta della loro psiche. Li hanno portati alla luce dando loro corpo e respiro. Ma, una volta fuori, sembra più che altro essere Lupa a scrivere attraverso questi corpi, a far di loro segni da muovere all’interno di un dispositivo scenico ideato intorno agli attori e sulla base del lavoro collettivo di tutta la compagnia. Per parlare di questo dispositivo e delle linee di forza che sorreggono quest’opera, possiamo descrivere l’inizio dello spettacolo.
Un’attrice, in video, racconta ad un giornalista le sue sensazioni e riflessioni dopo che un suo laboratorio, presentato al Théatre National, è stato un fiasco completo. Il filmato ci introduce nel mondo costruito da Lupa sulle parole di Bernhard, a platea ancora illuminata. Verso la fine del video i personaggi fanno il loro, silenzioso, ingresso in scena. Joyce il pittore, la drammaturga, il musicista, i due giovani autori e la padrona di casa si posizionano nel salotto degli Auersberger. Il salotto è il luogo nel quale si svolge quello che il critico letterario ungherese Péter Szondi avrebbe definito il “dramma assoluto”, ovverosia un dramma la cui azione si compie interamente nel presente e si risolve nel solo dialogo interumano.
Questo luogo è delimitato alla vista del pubblico da un reticolo metallico di travi: un muro aperto che divide pubblico e attori ma che al contempo li espone allo sguardo, voyeuristico, del pubblico. Inoltre, esso impone una dialettica tra dentro e fuori tanto rigida quanto in sé critica ed instabile. Una condizione eminentemente contraddittoria a causa di due personaggi: il romanziere Thomas, ed il compagno di Joana, l’attrice la cui intervista funziona da introduzione alla fabula.
Sono questi due i personaggi chiave del racconto di Lupa/Bernhard, scritto attraverso il corpo degli attori in scena e montato con un processo compositivo che si rivela sapiente gioco dialettico tra filmico e teatrale, tra diegetico ed extradiegetico, tra presente della scena e passato della narrazione.
Alfred, compagno di Joana, è stato invitato ad una “cena artistica” organizzata dagli Auersberger che, dopo il recente suicidio di Joana, loro amica, ed il suo funerale, dovrebbe diventare una serata in onore dell’amica scomparsa. Nuovo arrivato in una cerchia di persone che si conoscono l’un l’altro fino alla nausea, fino a confondersi l’uno nella meschinità dell’altro, la sua marginalità è evidente, confermata dalla sua posizione, defilata rispetto al centro del salotto. La sua espressione e gli sguardi obliqui e diffidenti criticano e giudicano le pose dei personaggi principali. Ma all’inizio, anche lui, si confonde, annegato nel suo dolore di personaggio e soffocato dall’atmosfera pesante, asfissiante del salotto.
La noia, la stanchezza, il rifiuto invadono anche noi spettatori. Tanto che l’inizio dello spettacolo è di una noia mortale e velenosa. Ci pervade, ci fa dubitare della riuscita dello spettacolo. Il vuoto delle battute dei personaggi è tale da volerci far scappare via dal teatro prima che la noia ci inghiotta. Ma ormai siamo nel gioco, siamo nella gabbia. E scappare sembra impossibile.
Il solo fattore che ci tiene svegli è la figura dello scrittore Thomas. La sua funzione epica e narrativa è dichiarata dalla sua posizione, radicalmente fuori dalla “gabbia-salotto”, sprofondato su una poltrona in avanscena. Tuttavia, la sua posizione fisica, così come lo statuto all’interno dello spettacolo, non potrebbero essere più ambigui. Egli fa da passeur tra il salotto e il mondo fuori. La sua posizione di partenza è quella di Caronte sullo Stige: in bilico tra una sponda e l’altra del fiume dei morti, traghettatore di anime dannate ma dannato egli stesso.
La sua voce e i commenti criticano il salotto-mondo nel quale siamo entrati. Di più, la sua noia, l’apatia, il distacco e il suo disgusto ci invadono. È lui che getta su di noi questa sensazione di pesante e noioso malessere. Senza di lui, la vita psichica degli altri dietro al muro del salotto ci risulterebbe solo noiosa ed indifferente. La sua presenza, invece, istituisce un legame diretto tra pubblico e platea. Con filo doppio egli lega il pubblico alla vita dei personaggi. Senza la possibilità di descrivere la totalità della meccanica di questo lungo spettacolo (quattro ore e mezza con intervallo), già da questa scena liminare possiamo elencare le colonne portanti del montaggio di Lupa.
I video, proiettati al di sopra degli attori, hanno la funzione di analessi descrittiva dei fatti antecedenti la “cena artistica”. A volte introducono gli antefatti, senza i quali sarebbe impossibile seguire il corso della scena, altre approfondiscono la psicologia di alcuni personaggi. Sono comunque e sempre salti nel passato. Anch’essi, come la divisione del palco, rilevano di una dialettica dentro/fuori: il dialogo interumano al presente delle scene nel salotto – o, una volta girato il palco, negli altri luoghi vissuti al presente dagli attori del dramma – è riempito di contenuto grazie ai rimandi al passato.
In questo senso i video non solo spiegano, ma interagiscono e danno densità (negativa) e spessore (angosciante) al vuoto dei dialoghi. In uno di essi, i rapporti di forza tra i gruppi presenti sulla scena sono riprodotti in una mise en abime chiarificatrice. Durante il pranzo che segue il funerale di Joana, gli artisti sono ad un tavolo separato da quello del compagno di Joana e di un personaggio femminile che potrebbe essere tanto la sorella di Joana quanto un’amica. Ciò che importa è il suo essere, lei come Alfred, separata dagli “altri”, dal circolo degli “artisti”. Tra i due gruppi appena pochi sguardi, per il resto regna la più totale indifferenza.
Il racconto straziante di come Alfred ha scoperto il corpo di Joana è possibile solo grazie al personaggio di Thomas, che rompe la barriera e permette alla storia di Alfred di essere raccontata. Del resto, tutto lo spettacolo è una storia di isolamenti e di solitudini. Di gabbie che imprigionano e legano l’uno all’altro i personaggi e i gruppi. Il salotto è una gabbia dalla quale tutti vorrebbero scappare ma dalla quale solo Alfred, alla fine, riuscirà a sfuggire veramente.
Thomas riporta il passato al presente ricordando e rivivendo il suo rapporto con Joana. La quale, del resto, era chiusa in una morsa di dolore che solo il suicidio, forse, è riuscito a placare. Come cinicamente afferma Thomas verso la fine dello spettacolo. Lui, però, il nostro passeur, il traghettatore Thomas, è colui che non fa altro che mostrare e definire i contorni delle gabbie al pubblico. Non solo: in forza del suo doppio statuto di personaggio sia dentro che fuori, emanazione del romanziere Bernhard e del regista Lupa, da personaggio ci racconta la storia legandoci ad essa, e così imprigiona anche noi in questa gabbia. Ci rinchiude nella storia, ci immerge in essa e ce ne rende responsabili. Rispondendo, così, ad un’esigenza precisa della poetica di Lupa, il quale, in un’intervista a Jean-Pierre Thibaut, spiega che per lui il pubblico “non è un semplice spettatore, è un co-medium”, perché i personaggi, da soli, non bastano. A loro serve il pubblico come partner. E per sfuggire dalla gabbia/spettacolo, l’unica “via di fuga è verso il pubblico”.
Il labirintico gioco di sguardi riflessi, evocato all’inizio, è tale per la presenza del pubblico. I soli fattori interni alla scena non basterebbero a giustificare o a tenere in piedi queste gabbie. Il pubblico, col suo guardare attivo, chiamato in causa e risvegliato dagli attori in scena, imbrigliato dal narratore Thomas, si ritrova a fine spettacolo cosciente di aver partecipato a questo gioco, di esserne stato, se non proprio co-autore, sicuramente complice. Le sue proiezioni sulla scena e i rimandi silenziosi hanno nutrito quel mondo.
Gli spettatori non possono più ignorare o chiudere gli occhi su questa realtà: la gabbia/teatro è diventata una gabbia/mondo. Soli in questa gabbia popolata di altri, anche un personaggio disgustoso come l’Attore può farsi “filosofo di un’istante”, evocare la foresta, l’alta foresta e questi arbres à abattre. ( http://www.klpteatro.it )
di Tommaso Zaccheo
(17/12/2016)
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