Troisi Laggiù qualcuno mi ama

Troisi Laggiù qualcuno mi ama è il viaggio personale di Mario Martone nel cinema di Massimo Troisi. Il principio morale e politico è che l’artista del popolo incarna in sé Napoli, la sua evoluzione, il carattere melanconico, ironico
di Raffaele Meale

Troisi Laggiù qualcuno mi amaTroisi Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, dopo aver portato in scena Scarpetta ed Eduardo, si confronta con un’altra figura fondamentale della rappresentazione partenopea, quel Massimo Troisi che nel 2023 avrebbe compiuto settant’anni. Per quanto composto in una forma documentaria canonica, il film è una riflessione saggistica sul ruolo anche politico e sociale di un artista, e sul suo lascito collettivo.

Morto Troisi, viva Troisi!

Laggiù qualcuno mi ama è il viaggio personale di Mario Martone nel cinema di Massimo Troisi. Montando le scene dei suoi film Martone vuole mettere in luce Troisi come grande regista del nostro cinema prima ancora che come grande attore comico, e per farlo delinea la sua parabola artistica dagli inizi alla fine, inquadrandolo nella temperie degli anni in cui si è formato e nella città comune ai due registi, Napoli.

In qualche modo ricomincia da tre anche Mario Martone con Laggiù qualcuno mi ama, il documentario che ha dedicato alla memoria umana e artistica di Massimo Troisi e che dopo la presentazione fuori concorso alla Berlinale raggiunge le sale italiane in concomitanza con l’ideale settantesimo compleanno del grande attore e regista napoletano, scomparso oramai quasi trent’anni fa. Ricomincia da tre Martone non perché, alla maniera di Gaetano, ritiene di aver fatto tre cose buone nella vita, ma perché il suo nuovo lavoro sembra quasi tripartire lo sguardo, fin dall’incipit.

C’è ovviamente al centro del discorso Troisi, la sua eccezionale maschera comica che rinverdisce la lunga e virtuosa tradizione partenopea della risata, ma accanto a Troisi Martone allarga il discorso tanto all’humus culturale e politico che si respirava nella Napoli non milionaria ma viva e vegeta di fine anni Settanta quanto alla propria memoria personale, anche e soprattutto quella collegata direttamente a Troisi.

Parte da una sequenza di Splendor di Ettore Scola, Laggiù qualcuno mi ama, quella in cui il proiezionista Luigi (interpretato da Troisi) cammina per le strade vuote della frusinate Arpino insieme a Marina Vlady: “Lei è svedese, vero?”, chiede il ragazzo, sentendosi rispondere “Sono francese, di Maisons-Laffitte”.

Martone sta guardando il film alla moviola del montaggio – elemento che godardianamente tornerà più volte durante lo sviluppo del documentario – e ricorda il momento in cui incontrò per la prima volta Troisi, al Festival del cinema mediterraneo di Montpellier (uno portava Pensavo fosse amore… Invece era un calesse, l’altro Morte di un matematico napoletano). La conoscenza privata tra i due registi, posta però in una forma completamente dialettica, è uno dei tre percorsi narrativi attorno ai quali si articolerà il film: gli altri due, e dunque anche gli altri due inizi, riguardano invece le lotte dei disoccupati organizzati e della Napoli sotterranea e contro-culturale (nell’utilizzo del repertorio riecheggia Je so’ pazzo di Pino Daniele) da una parte e la carriera attoriale e autoriale di Troisi. In questo senso evocativo, e sublime nella sua netta semplicità l’accostamento di montaggio tra un palazzo “sgarrupato” della Napoli odierna e la sequenza d’apertura di Ricomincio da tre, con cui Troisi mosse i primi passi nel cinema dopo essersi fatto le ossa nei teatri off e in televisione con “La Smorfia”, la compagnia di cui era leader insieme a Enzo Decaro e Lello Arena. Martone sottolinea la comunione d’amorosi sensi eseguendo lo stesso movimento di macchina, che nel film di Troisi culmina con Arena che si sgola per chiamare l’amico. “Gaeta’! Gaetano! Gaeta’!”.

Se com’è inevitabile l’occasione di concentrare lo sguardo su un artista mai banale come Troisi consente a Martone una digressione sulla scena artistica napoletana in cui lui stesso sul finire degli anni Settanta iniziò a sperimentare il proprio teatro, e di cui furono figure centrali tra gli altri Antonio Neiwiller, Toni Servillo, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, James Senese, il regista non perde mai di vista il centro del suo discorso, e del suo sguardo.

Il principio morale e politico è che l’artista del popolo incarna in sé Napoli, la sua evoluzione, il carattere melanconico, ironico e insubordinato di questa grande città del sud: in questo senso la figura di Troisi, seppur attraverso un processo documentario e non di “finzione”, dialoga direttamente con Scarpetta ed Eduardo, motori di Qui rido io, ma anche con la parte napoletana de Il giovane favoloso, il film che Martone ha edificato sulla vita e le opere di Giacomo Leopardi.

Anche Troisi è un “giovane favoloso”, un artista geniale che non si è mai posto al di sopra del popolo: come sottolinea Goffredo Fofi l’ingresso in scena de La Smorfia permette a Napoli di uscire dalla sua dimensione comica “adulta” per riappropriarsi della sua fase “adolescente”. Su questo principio si articola interamente Laggiù qualcuno mi ama, che film dopo film, anno dopo anno, sceglie la via dell’agiografia; non una scelta di comodo, però, ma la scientifica lettura di una figura che coalizzò un intero popolo, gli fece ritrovare un’identità che aveva progressivamente smarrito. Troisi come Diego Armando Maradona, che non a caso è immortalato accanto a lui in una partita di beneficenza, ma anche come Totò, maschera comica e tragica allo stesso tempo.

Se lo schema documentario può apparire canonico, con la giustapposizione di materiale d’archivio (ricchissimo, e anche sorprendentemente inedito, come testimoniano ad esempio gli appunti di Troisi e la sua agenda) e testimonianze di chi ha conosciuto, ammirato, studiato il cinema di Troisi, Martone ha due intuizioni che smarcano Laggiù qualcuno mi ama dalla prassi. La prima è quella di entrare lui stesso in scena, rompendo lo schema del narratore onnisciente perché occulto (e quindi intrinsecamente divino) e ponendosi in una forma compiutamente dialettica; la seconda è quella non solo di leggere Troisi come artista tout-court, ma di trasformare la sua esperienza artistica in una continua incessante e dolorosamente icastica indagine della vita, e dell’amore.

Si configura così come un atto d’amore questo nuovo lavoro di Martone – che nell’ultimo lustro ha diretto quattro lungometraggi di finzione, questo documentario, la regia televisiva de Il barbiere di Siviglia e quella teatrale de Il filo di mezzogiorno, nonché La Bohème e Fedora rispettivamente per il Teatro dell’Opera di Roma e La Scala di Milano –, il tentativo ultimo di trattenere in vita questo artista umanamente ricchissimo, che troppo presto è scomparso.

Troisi Laggiù qualcuno mi ama.  “Tu dimmi quando quando”, canta Pino Daniele per Pensavo fosse amore… Invece era un calesse, ed è quell’indeterminazione a lasciare sospesa ogni opera di Troisi, che un finale non può trovarlo se non improvviso, quasi imprevisto. In modo filologico Martone, che con scelta altrettanto chiara e netta scrive insieme ad Anna Pavignano (storica co-sceneggiatrice di Troisi), chiude quando meno ce lo si aspetta, come se così facendo l’attore-anima – secondo la definizione di Eugenio Barba – potesse restare qui, in questo quaggiù dove ancora qualcuno lo ama.  ( https://quinlan.it

 

 di Raffaele Meale
    (01/03/2023)

 

 

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