G7, riforma dell’Oms

G7, i leader delle economie industrializzate del pianeta chiedono la riforma dell’Oms.  Gli Stati Uniti sono stati finora il maggiore contributore finanziario con oltre 400 milioni di dollari nel 2019, a fronte dei 40 milioni di dollari l’anno stanziati da Pechino.
Redazione

I capi di Stato e di governo delle sette maggiori economie industrializzate del pianeta (G7) hanno concordato ieri in merito all’esigenza di una “approfondita” revisione e riforma strutturale e dei meccanismi di funzionamento dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Lo ha annunciato la Casa Bianca, che ha così ulteriormente intensificato la propria campagna contro quell’agenzia delle Nazioni Unite, accusata dal governo Usa di complicità con la disinformazione e i ritardi che hanno segnato la risposta iniziale alla pandemia del coronavirus.

I leader del G7 hanno affermato il reciproco impegno a cooperare per far fronte alla crisi sanitaria globale, e a lavorare per una solida ripresa dell’economia, ma “la conversazione è stata perlopiù incentrata sull’assenza di trasparenza e il cronico malgoverno dell’Oms nel contesto della pandemia”, recita la nota diffusa dalla Casa Bianca. La richiesta comune di riformare l’Organizzazione è giunta in occasione della seconda videoconferenza tra i leader dei paesi del G7, che all’Oms versano complessivamente ogni anno oltre due miliardi di dollari.

I recenti attacchi degli Stati Uniti all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), accusata di “sinocentrismo” dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, hanno ricordato come le agenzie delle Nazioni Unite si stiano trasformando sempre più in arena di battaglia politica tra le superpotenze mondiali. Nel sospendere i finanziamenti a favore dell’organizzazione, il capo della Casa Bianca ha lanciato un messaggio deciso in direzione della Cina, che negli ultimi anni ha fortemente allargato la propria influenza sull’universo Onu. Lo ha fatto, peraltro, in una fase storica di costante ma inesorabile disimpegno da parte degli Stati Uniti, che sotto la presidenza Trump si sono mostrati sempre scettici sulle alleanze multilaterali e ostili ai consessi internazionali.

Attualmente, quattro delle 15 agenzie delle Nazioni Unite sono guidate da cittadini cinesi: la Repubblica popolare ha ottenuto la nomina di Qu Dongyu quale direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), di Houlin Zhao come segretario generale dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), di Li Yong come direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (Unido) e di Fang Liu quale segretario generale dell’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (Icao).

Non solo. Sorpassando il Giappone, la Cina si è imposta anche come secondo maggiore finanziatore mondiale delle Nazioni Unite, con un contributo pari al 12 per cento del budget complessivo dell’organizzazione. Il portale “The diplomat” fa risalire l’inizio della scalata al 2007: da allora il ruolo di sotto-segretario generale per gli Affari economici e sociali dell’Onu è sempre stato appannaggio di diplomatici cinesi. “Questo – scrive il sito specializzato – ha fornito al governo di Pechino l’opportunità di plasmare sui propri interessi i programmi di sviluppo delle Nazioni Unite”.

Il Dipartimento dell’Onu per gli affari economici e sociali (Desa) ha sostenuto per esempio il grande progetto cinese delle Nuove vie della seta (o Belt and road initiative, Bri) quale strumento per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. A esprimersi a favore della maxi-iniziativa infrastrutturale di Pechino sono stati anche il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), che ha sottolineato la capacità della Bri di “moltiplicare l’impatto delle iniziative Onu contro la povertà infantile, e l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), che ha invece puntato l’attenzione sulla connettività globale favorita dai progetti finanziati dalla Cina. Ancora, la Repubblica popolare è l’unica a contribuire al Fondo fiduciario per la pace e lo sviluppo dell’Onu, il cui comitato direttivo – composto da cinque seggi, quattro dei quali occupati da funzionari cinesi – assiste il segretario generale Antonio Guterres nella scelta delle iniziative da finanziare.

Un articolo pubblicato all’inizio dello scorso marzo dal “Washington Post” ricordava come la Repubblica popolare abbia utilizzato diversi strumenti a propria disposizione per farsi largo nel complesso universo Onu. Lo scorso anno, per esempio, la Cina ha cancellato il debito vantato nei confronti del Camerun quando quest’ultimo ha ritirato la candidatura del suo diplomatico Medi Moungui per la guida della Fao. Stando a fonti governative statunitensi menzionate dallo stesso quotidiano, Pechino avrebbe minacciato di tagliare le esportazioni da Argentina, Brasile e Uruguay se questi tre paesi non avessero appoggiato la candidatura del cinese Qu per lo stesso incarico.

La Cina utilizza la propria posizione di forza al Palazzo di vetro anche per ridurre il peso e la presenza di Taiwan nei consessi internazionali. La Repubblica di Cina, che rivendica la propria autorità sull’intera Cina continentale ma che non è riconosciuta come paese indipendente da nessuno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, ha recentemente denunciato la propria esclusione da diversi incontri dell’Oms e dell’Icao per la risposta all’emergenza coronavirus. Ne è sorta una polemica durissima tra Taipei e i vertici delle due agenzie, con Tedros Adhanom Ghebreyesus che ha accusato di razzismo il governo di Taiwan.

Solo negli ultimi mesi gli Stati Uniti sembrano essersi decisi a contenere l’offensiva cinese sulle agenzie Onu. Il mese scorso l’amministrazione Trump è riuscita ad assicurarsi l’elezione del candidato di Singapore Daren Tang come direttore generale dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (Wipo) al posto del cinese Wang Binying. Quello della proprietà intellettuale è proprio uno dei dossier più caldi al centro delle tensioni tra le due potenze mondiali, con Washington che accusa da tempo Pechino di aver fatto uso in maniera sistematica e scientifica dello spionaggio industriale per permettere alle sue aziende di Stato di dominare i mercati mondiali.

Con lo scoppio della pandemia di coronavirus, non appare un caso che lo scontro si sia spostato sul tema della sanità. Gli Stati Uniti sono stati finora il maggiore contributore finanziario dell’Oms, con oltre 400 milioni di dollari nel 2019, circa il 15 per cento del budget dell’agenzia, a fronte dei 40 milioni di dollari l’anno stanziati da Pechino.

Malgrado un contributo finanziario relativamente esiguo, la Cina è riuscita a garantirsi un’importante influenza sull’organizzazione. L’attuale direttore Tedros rappresenta infatti un paese, l’Etiopia, che fa parte (come lo Zimbabwe) di quel blocco di paesi africani che vantano strettissimi legami con la Repubblica popolare. Circa metà del debito estero etiope è detenuto dalla Cina, che circa un anno fa ha accettato di rinegoziarne i termini con il premier Abiy Ahmed, designato premio Nobel per la pace nell’ottobre scorso. Secondo l’agenzia “Xinhua”, sono 400 i progetti d’investimento cinesi già operativi nel paese, per oltre 4 miliardi di dollari. L’Etiopia è anche fra i partner chiave nell’iniziativa “Nuova Via della seta” (“Belt and road Initiative”), mentre Pechino intende costruire in Etiopia un nuovo centro da 80 milioni di dollari per i Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie. Nel gennaio scorso, inoltre, la compagnia di bandiera statale Ethiopian Airlines – fra le poche ad aver mantenuto voli con la Cina durante l’emergenza Covid-19 – ha annunciato la costruzione di un nuovo aeroporto della capacità di 100 milioni di passeggeri che sarà finanziato dalla Cina.

È notizia del mese scorso, infine, che la Fondazione Jack Ma, di proprietà del miliardario cinese co-fondatore del colosso di commercio elettronico Alibaba, ha inviato ad Addis Abeba un primo lotto di 1 milione di kit di test per il coronavirus, 5,4 milioni di mascherine facciali, 40 mila set di indumenti protettivi e 60 mila set di schermi protettivi per uso medico per aiutare i paesi africani a fronteggiare l’emergenza coronavirus. Il materiale donato è stato consegnato ad Addis Abeba per poi essere distribuito a tutti i paesi africani, con il premier Ahmed incaricato di gestire la logistica e la successiva distribuzione.

Ora negli Stati Uniti ci si interroga tuttavia sull’opportunità del taglio ai finanziamenti per l’Oms deciso da Trump. Lo stesso “Washington Post”, espressione del mondo conservatore, ricorda come la misura rischi di tagliare ancor più fuori gli Usa dai processi decisionali onusiani. E, dunque, di lasciare mano ancor più libera alla Cina. Dall’altra parte vi è il “New York Times”, che sottolinea come – malgrado le critiche di Trump – l’Organizzazione mondiale della sanità abbia agito in risposta alla pandemia di coronavirus in maniera più pronta ed efficace della maggior parte delle autorità nazionali. “Con informazioni limitate e in costante evoluzione – valuta il maggiore quotidiano statunitense – l’Oms ha mostrato (nei primi giorni dell’emergenza) una pronta e ferma determinazione a trattare il contagio come la minaccia che effettivamente sarebbe diventata, cercando di convincere chiunque a fare lo stesso. Allo stesso modo, l’organizzazione ha ripetutamente elogiato la Cina, agendo e parlando con la cautela politica necessaria a un organismo delle Nazioni Unite che gode di poche risorse e che non è in grado di lavorare senza cooperazione internazionale”. L’Oms, insomma, avrebbe “agito con molta più oculatezza e velocità di molti governi nazionali, certamente più di quanto abbia fatto in occasione di precedenti epidemie. E, nonostante abbia commesso degli errori, vi sono poche prove per attribuire all’organizzazione la responsabilità del disastro che ha travolto l’Europa prima e gli Stati Uniti poi”.  Agenzia Nova  – https://www.agenzianova.com/

 

    Redazione
  (17/04/2020)

 

 

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