Rettificazione del genere anagrafico

La Corte di Strasburgo ha accertato una violazione dell’articolo 8 CEDU da parte della Francia per aver subordinato la rettificazione del genere anagrafico al requisito della irreversibilità della trasformazione delle apparenze.

di Carla Maria Reale

 

Rettificazione del genere anagraficoRettificazione del genere. Corte EDU: A.P., Garçon et Nicot c. France (6 aprile 2017) . La Corte di Strasburgo ha accertato una violazione dell’articolo 8 CEDU da parte della Francia per aver subordinato la rettificazione del genere anagrafico al requisito della irreversibilità della trasformazione delle apparenze, inteso come raggiungimento di una condizione di sterilità derivante da intervento chirurgico o trattamento medico.

All’origine della decisione vi sono tre ricorsi, presentati da A.P, Émile Garçone e Stèphane Nicot, donne transgender, e vertenti sulle condizioni previste dall’ordinamento francese per l’ottenimento della rettificazione di nome e sesso.

La prima ricorrente, AP è una persona transessuale, che chiedeva la rettificazione di sesso e nome nel proprio atto di nascita sulla base di documentazione medica di tipo endocrinologico e psichiatrico ed allegando anche al documentazione comprovante l’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso. La domanda veniva rigettata dalle corti francesi sulla base di una insufficienza di prove, essendosi AP rifiutata di sottoporsi alla consulenza tecnica di tipo medico disposta dal giudice. La ricorrente lamenta pertanto:

Violazione dell’art. 8 Cedu a causa dell’avvenuto rigetto della domanda di rettificazione del sesso nell’atto di nascita, per cui era stato richiesto di dimostrare la veridicità della propria sindrome transessuale ed il carattere irreversibile della trasformazione delle proprie apparenze. Richiesta dichiarata irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.

Violazione dell’art. 8 in combinato disposto con l’art. 3 Cedu, poiché la rettificazione veniva condizionata ad accertamenti medici invasivi e degradanti. Tale richiesta viene dichiarata infondata poiché la Corte sostiene che non vi sarebbe stata una significativa ingerenza nella vita privata.

Violazione dell’art. 6 Cedu, eventualmente in combinazione con l’articolo 8, per erronea valutazione delle prove da parte del giudice interno circa l’irreversibilità della propria trasformazione. La questione non viene esaminata perché considerata assorbita da quella riguardante la violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

La seconda ricorrente, Garçone è una donna transessuale a cui è stata diagnosticata sindrome di transessualismo, che si era sottoposta a trattamenti ormonali e intervento chirurgico di riassegnazione del sesso. Allegando documentazione endocrinologica, domandava la rettificazione di sesso e nome.

La terza ricorrente, Nicot è una donna transgender, richiedeva la rettificazione di sesso e nome non allegando alcun tipo di documentazione medica. Entrambe le domande venivano rigettate delle corti interne francesi per insufficienza di prove in merito alla veridicità della propria condizione transessuale e l’irreversibilità della trasformazione delle apparenze.

Le due richieste vengono analizzate dalla Corte congiuntamente. Le ricorrenti lamentano una violazione dell’articolo 8 della Convenzione derivante dal requisito dell’irreversibilità della trasformazione, ai fini dell’ottenimento della rettificazione del genere anagrafico,. La ricorrente Nicot lamentava in particolare una specifica violazione derivante dall’accertamento della condizione di veridicità della sindrome transessuale. Infine, le ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 14 Cedu in combinazione con l’articolo 8, poiché dalla prassi francese emergeva una discriminazione delle persone transgender rispetto alle persone transessuali. La questione, giudicata manifestamente infondata, non viene esaminata, poiché viene considerata assorbita dalla precedente.

Sulla violazione dell’art. 8 della Convezione La Corte rileva l’applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione: la nozione di vita privata è da intendere in senso ampio, atta a includere e proteggere anche l’identità sessuale di una persona, come emerge anche da precedenti pronunce (fra cui la recente Y.Y. contro Turchia). La Corte afferma che il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo implica le necessità di riconoscere l’appartenenza sessuale della persona transessuale. A quest’ultima è riconosciuto dall’articolo 8 il diritto alla realizzazione personale e all’integrità fisica.

La questione posta dalle ricorrenti è ascrivibile al dovere dello Stato di rispettare le obbligazioni positive derivanti dalla Convenzione. Affermato ciò, la Corte effettua una ricostruzione dell’ambiguo requisito di irreversibilità della trasformazione alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale francese, accertando che lo stesso coincideva, all’epoca delle circostanze, con la realizzazione di una operazione di sterilizzazione o di un trattamento tale da restituire una elevata probabilità di sterilità.

La Corte sostiene che, poiché sono coinvolti aspetti essenziali dell’identità degli individui ed anche l’integrità fisica degli stessi, il margine di discrezionalità esistente nell’ambito delle obbligazioni positive in capo agli Stati, nel caso di specie è alquanto ristretto. Osserva un progressivo abbandono del criterio della sterilità da parte degli Stati (la stessa Francia, alla data della sentenza, ha nuove previsioni legislative in materia) e delle nette prese di posizione di istituzioni internazionali ed europee in senso contrario a tale pratica. Il soddisfacimento del requisito della sterilità pone questioni attinenti all’integrità fisica dei soggetti. La Corte riscontra una certa omogeneità fra il caso di specie ed altri, aventi ad oggetto la sterilizzazione non consenziente di adulti, in cui era stata accertata una violazione degli articoli 3 e 8 della CEDU. Infatti, il consenso non può essere pieno se da questo dipende la possibilità di riconoscimento della propria identità sessuale.

Il necessario bilanciamento fra interessi generali e interessi dei singoli in tale ambito è stato compiuto erroneamente in sfavore delle persone transessuali, costrette a scegliere fra la propria integrità fisica e la propria identità sessuale, entrambe peraltro coperte dall’articolo 8 della Convenzione. La Corte sostiene che tale prassi è incompatibile con il rispetto della libertà e della dignità dell’uomo.

In merito alla specifica domanda di Nicot, circa l’accertamento di una violazione dell’articolo 8 derivante dalla verifica della condizione di veridicità della sindrome transessuale, la Corte si pronuncia in senso negativo, affermando che in tal caso il margine di discrezionalità è più ampio poiché la maggior parte degli Stati europei richiede una diagnosi di transessualismo e che la stessa possa essere garanzia che nessuna persona si sottoponga erroneamente a trattamenti medici che possono essere irreversibili. (  http://www.biodiritto.org/  )

 

    di Carla Maria Reale
      (20/05/2017)

 

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