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	<title>Trieste - ViaCialdini</title>
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	<description>Rivista On line di Cultura e Informazione</description>
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		<title>Antifascismo, un simbolo impadronito</title>
		<link>https://www.viacialdini.it/cultura/antifascismo-un-simbolo-impadronito</link>
		
		<dc:creator><![CDATA[Michele Luongo]]></dc:creator>
		<pubDate>Sat, 21 Sep 2019 08:45:17 +0000</pubDate>
				<category><![CDATA[CULTURA]]></category>
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					<description><![CDATA[<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo-150x150.jpg"/><p>Il nuovo antifascismo come “ultima risorsa delle canaglie”.  Un blasone di nobiltà a una classe dirigente (politica e culturale) ampiamente screditata, sotto il profilo etico e intellettuale, anche se giustificata in parte dal suo essere impari alle sfide nuove che l’economia globale rappresenta per tutti i vecchi stati nazionali.  di Dino Cofrancesco  Antifascismo, un simbolo impadronito &#8211; Spesso in questi ultimi tempi mi è capitato di pensare, parafrasando il Dr.&#8230; </p>
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			<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo-150x150.jpg"/>							<content:encoded><![CDATA[<h2 style="text-align: justify;"><strong>Il nuovo antifascismo come “ultima risorsa delle canaglie”.  Un blasone di nobiltà a una classe dirigente (politica e culturale) ampiamente screditata, sotto il profilo etico e intellettuale, anche se giustificata in parte dal suo essere impari alle sfide nuove che l’economia globale rappresenta per tutti i vecchi stati nazionali</strong>. <br />
<em>di Dino Cofrancesco </em></h2>
<figure id="attachment_16019" aria-describedby="caption-attachment-16019" style="width: 300px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo.jpg" data-rel="lightbox-gallery-cmtL0hzG" data-rl_title="" data-rl_caption=""><img decoding="async" fetchpriority="high" class="wp-image-16019 size-medium" title="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo-300x195.jpg" alt="Antifascismo, un simbolo impadronito" width="300" height="195" srcset="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo-300x195.jpg 300w, https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo-768x498.jpg 768w, https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2019/09/dannunzio_trieste-antifascismo-un-simbolo.jpg 800w" sizes="(max-width: 300px) 100vw, 300px" /></a><figcaption id="caption-attachment-16019" class="wp-caption-text">Trieste, monumento a Gabriele D’Annunzio</figcaption></figure>
<p style="text-align: justify;">Antifascismo, un simbolo impadronito &#8211; Spesso in questi ultimi tempi mi è capitato di pensare, parafrasando il Dr. Samuel Johnson, all’antifascismo come al “the last refuge of a scoundrel” – in traduzione libera, l’ultima risorsa delle canaglie. Subito dopo, però, ho messo da parte il mio “cattivismo”. Per quanto ripugnante possa essere, in genere, la filosofia dell’Anpi (tra l’altro presieduta da una fanatica come Carla Nespolo nata nell’anno in cui cadde il fascismo, in seguito al voto del Gran Consiglio), il moralismo (l’indignazione) dovrebbe essere bandito dallo studio dello storico e dell’osservatore imparziale del mondo politico e sociale. E allora la vera domanda è: quali sono la genesi, la natura e le funzioni dell’antifascismo oggi?</p>
<p style="text-align: justify;">La prima domanda non è priva di senso: l’antifascismo nelle sue forme attuali, infatti, non è quello del 1943 o del 1945, quando gli italiani si ritrovarono tra le macerie di una guerra assurda, voluta da un regime politico che, a partire dalle leggi razziali, era stato tentato dalla via totalitaria. Fino agli anni ’60, l’antifascismo – quello autentico, sentito se non da tutti i nostri connazionali, da una considerevole maggioranza di cattolici, laici, radicali, socialisti, comunisti, liberali… – non era ossessivamente presente nel discorso pubblico, nella cultura, nella storiografia. Lo hanno fatto notare storici come Giuseppe Bedeschi, Roberto Pertici e altri. La “Storia d’Italia” del comunista Giorgio Candeloro, uno studioso di elevata cifra intellettuale, non vede nell’antifascismo la coscienza etica dell’Italia repubblicana.</p>
<p style="text-align: justify;">La svolta si ebbe nel 1960 e nel 1968: da un lato, le giornate di Genova (giugno 1960), che segnarono la fine del Governo Tambroni, un uomo della sinistra Dc che all’appoggio venuto meno del PSI di Pietro Nenni sostituì, incautamente, quello del MSI di Arturo Michelini. Dall’altro, la contestazione, che all’inizio indifferente, poi via via sempre più invasata di antifascismo, denunciò la Resistenza “tradita” – contribuirono, complice la cultura dell’azionismo soprattutto piemontese, a ribaltare il rapporto tra antifascismo e democrazia. Da allora l’antifascismo cambiò natura: da attributo naturale della democrazia (una democrazia non può non essere antifascista come non può, del resto, non essere anticomunista) ne diventò lo Spirito Santo o, più laicamente, la Magistratura Suprema, che “giudica e manda secondo ch’avvinghia”: se c’è, il sostantivo, l’Antifascismo, non può non esserci l’attributo, la democrazia, di qui l’esitazione a ritenere antidemocratici i regimi politici populistici (asiatici, africani, sudamericani) che fanno dell’antifascismo la loro bandiera (“no pasaran”).</p>
<p style="text-align: justify;">È la “mistica” la natura del nuovo antifascismo, una natura che avrebbe fatto trasalire i Mario Pannunzio, i Benedetto Croce, i Gaetano Salvemini, per i quali è il “pro” che definisce e qualifica una forma di governo non l’”anti” che esalta, con incomprensibile enfasi, la guarigione da una malattia che non avrebbe mai dovuto colpire l’Italia del Risorgimento, di Cavour, di Mazzini.</p>
<p style="text-align: justify;">Di recente, però, l’antifascismo, da “mistica” nazional-progressista, che nei partigiani delle Brigate Garibaldi vedeva le nuove camicie rosse, sembra aver cambiato pelle: congiugendosi col buonismo e col politically correct, si è, per così dire, universalizzato. È diventato il Grande Inquisitore Globale incaricato di snidare il “male assoluto” del XX secolo dovunque rialzi la testa e di perseguire chiunque si richiami a valori come la tradizione, l’identità, l’autodeterminazione dei popoli, la sovranità, la nazione, gli stili di vita specifici che si intendono salvaguardare. Non c’è nulla di casuale in questo: la crisi dello stato nazionale – le cui cause complesse, ovviamente, non possono neppure accennarsi in questa sede – ha reso la political culture italiana sospettosa di ogni rivendicazione identitaria, e, pertanto, incapace di coglierne le ragioni, e quasi infastidita da quanti restano “prigionieri del passato”.</p>
<p style="text-align: justify;">Si spiega così il fatto che le proteste espresse dalla Croazia per il bel monumento eretto a Trieste a Gabriele D’Annunzio, in ricordo del centenario dell’impresa fiumana, siano state fatte proprie – lo ha ricordato Alessandro Gnocchi sul Giornale del 13 settembre u.s. – dall’Anpi. “A Ronchi, l’Anpi ha manifestato contro gli eventi in ricordo della marcia, perché la pensa come i compagni del passato” che nella rivoluzione fiumana vedevano un’anteprima del fascismo. “Slogan: Ronchi dei partigiani, Monfalcone meticcia. D’Annunzio era un fascista e un razzista anti-croato. E dunque presidio antifascista (il sindaco non ha gradito) contro la marcia commemorativa, alla quale partecipano anche associazioni degli Arditi e della X Mas. Nella notte sono comparsi decine di cartelli antifascisti, e Ronchi dei legionari nella segnaletica è diventata Ronchi dei partigiani”.</p>
<p style="text-align: justify;">Nel monumento incriminato, D’Annunzio non veste i panni del “Comandante” ma, in abiti civili, legge un libro appoggiato a una pila di altri libri. L’omaggio reso a uno dei grandi poeti, scrittori e drammaturghi del Novecento che, tra l’altro, aveva collaborato con un gigante della musica d’oltralpe, Claude Debussy – suo era il testo del Martirio di San Sebastiano, 1920 – è sembrato una provocazione. Il sindaco di Fiume Vojko Obersnel e la presidente croata, Kolinda Grabar-Kitarovi, hanno dato voce alla protesta croata e anpista, la prima scrivendo che “Fiume era e rimane una parte fiera della Patria croata e il monumento scoperto oggi a Trieste che glorifica l’irredentismo e l’occupazione, è inaccettabile”; il secondo, che “è inaccettabile l’inaugurazione della statua dedicata a un uomo che distruggeva tutto quanto toccasse”. In questo clima buonista, quasi nessuno ha ricordato che, nel 1911, gli italiani a Fiume erano il 46,9 per cento della popolazione contro il 31,7 dei croati e il 7,9 degli sloveni, e che uomini di valore come Leo Valiani ed Enzo Bettiza rivendicarono sempre l’italianità della città irredenta.</p>
<p style="text-align: justify;">L’episodio triestino è emblematico del contributo sostanziale dell’antifascismo alla perdita, forse irrimediabile, della nostra memoria storica. La saggezza antica (propria del liberalismo ottocentesco, assai poco liberal) che rinnegare le tradizioni non significa essere moderni e vergognarsi dei simboli nazionali (e D’Annunzio resta una gloria italiana) non salva l’anima ma condanna all’irrilevanza ontologica, è ormai tramontata.</p>
<p style="text-align: justify;">Non si parli, però, di insipienza, di eccessi, di cattivo gusto davanti a certe posizioni dell’Anpi giacché nella “follia” in esame “c’è una logica” che sta nelle “funzioni” svolte dall’antifascismo. Quest’ultimo, a ben riflettere, serve soprattutto a conferire un blasone di nobiltà a una classe dirigente (politica e culturale) ampiamente screditata, sotto il profilo etico e intellettuale, anche se giustificata in parte dal suo essere impari alle sfide nuove che l’economia globale rappresenta per tutti i vecchi stati nazionali. Come sanno gli scienziati politici, che se ne sono occupati, chi si impadronisce dei “simboli” viene a beneficiare di una rendita di posizione che, alla lunga, si esaurisce, come tutto in questo mondo, ma che sui tempi brevi e medi diventa una rilevante risorsa di potere.</p>
<p style="text-align: justify;">Quando non si è in grado di mantenere le promesse elettorali, di realizzare riforme, di garantire la legge e l’ordine, la legittimazione politica non viene da ciò che si fa ma da ciò che si è (o si dice di essere). I re di diritto divino riuscivano a conservare il rispetto e la venerazione dei sudditi anche se nulla facevano per essi: a mantenerli sul trono era il terrore delle forze infernali che si sarebbero abbattute su un regno privo di testa. Oggi il caos sono i sovranisti, i nazionalisti, gli euroscettici – forme subdole in cui rivive il fascismo di sempre, l’Ur-Fascismo di cui scriveva un chierico (geniale e brillante ma) “traditore” come Umberto Eco – e davanti al diavolo occorre mobilitarsi tutti, mettendo in ombra differenze e riserve. È, quindi, la ricostituzione resistenziale dell’Union sacrée la funzione cruciale dell’odierno antifascismo. Pacifista, cosmopolita, sempre “politicamente corretto”, esso è impensabile senza la “guerra civile”, senza la “chiamata a raccolta”, senza lo spirito di crociata.</p>
<p style="text-align: justify;">L’auspicata (ipocritamente) secolarizzazione della politica sarebbe la sua tomba giacché costringerebbe a mettere da parte i simboli alti, a ragionare concretamente sulle cose ma, soprattutto, a prendere atto che la politica non è la dimensione della verità ma dell’opinione, degli interessi legittimi spesso in conflitto, tra i quali bisogna mediare, trovando soluzioni ai problemi che essi pongono, spesso divisive e discordanti.</p>
<p style="text-align: justify;">Tanti anni fa, un noto cattedratico dell’Università di Torino all’obiezione, peraltro molto rispettosa, di uno studente inequivocabilmente di destra, rispose: “A lei non dico nulla. Con quelli come lei abbiamo già fatto i conti a Piazzale Loreto!”. Troppo comodo, troppo facile, questo modo di vincere la partita, solo scendendo in campo con la maglietta giusta!  (  <a href="http://www.atlanticoquotidiano.it" target="_blank" rel="noopener noreferrer">http://www.atlanticoquotidiano.it</a>  )</p>
<p style="text-align: justify;"> </p>
<p class="bg-success firma_articolo firma_articolo_generica">   di Dino Cofrancesco<br />
     (21/09/2019)</p>
<p>&nbsp;</p>
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		<title>Tact Festival di Teatro internazionale</title>
		<link>https://www.viacialdini.it/inscena/tact-festival-di-teatro-internazionale</link>
		
		<dc:creator><![CDATA[Michele Luongo]]></dc:creator>
		<pubDate>Mon, 11 Jun 2018 08:09:40 +0000</pubDate>
				<category><![CDATA[INSCENA]]></category>
		<category><![CDATA[attori]]></category>
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		<category><![CDATA[Dostoevskij]]></category>
		<category><![CDATA[Il Tact di Trieste]]></category>
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 <em>di  Doriana Legge</em></h2>
<p style="text-align: justify;"> </p>
<figure id="attachment_12353" aria-describedby="caption-attachment-12353" style="width: 350px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2018/06/Tact-Festival-Teatro-trieste-.jpg" data-rel="lightbox-gallery-y8RkghcB" data-rl_title="" data-rl_caption=""><img decoding="async" class="wp-image-12353" title="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2018/06/Tact-Festival-Teatro-trieste--300x200.jpg" alt="Tact Festival di Teatro internazionale" width="350" height="233" srcset="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2018/06/Tact-Festival-Teatro-trieste--300x200.jpg 300w, https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2018/06/Tact-Festival-Teatro-trieste-.jpg 600w" sizes="(max-width: 350px) 100vw, 350px" /></a><figcaption id="caption-attachment-12353" class="wp-caption-text">Foto di Vanni Napso</figcaption></figure>
<p style="text-align: justify;">A Trieste si è da poco conclusa la quinta edizione del Tact Festival di Teatro internazionale. Attori giovani o giovanissimi da tutto il mondo impegnati in workshop e spettacoli.</p>
<p style="text-align: justify;">La danzatrice indiana Patribhe Jena Singh si muove con gesti misurati e attenti tra i giovani attori che da tutto il mondo sono venuti a Trieste per la quinta edizione del Festival internazionale di teatro TACT. La pioggia che imperversa sulla città e i ritmi di un festival giovane e frenetico non paiono turbarla. Sta conducendo un workshop sulla danza Odissi, i ragazzi e le ragazze escono dalla sala dopo quattro ore di lavoro intenso e senza sosta, hanno le gambe stanche ma sguardi accessi, continuano a porle domande, cercano la chiave per entrare in un mondo che pare ai più ancora sconosciuto. Dopo la maratona di spettacoli – quelli del gruppo Academy of Arts di Belgrado e del gruppo lituano Teomai – Patribhe Jena Singh si avvicina e mi dice: «È chiaro che nel vostro teatro si parla molto». È vero che la parola è ancora uno dei modi, per molto teatro, con cui si prova a rispondere ad eterne domande, ma Patribhe sembra suggerirmi altro e non lo fa con la sicumera dell’artista consumato, quanto con la lucidità di uno spettatore marziano: il contorsionismo della parola è utile laddove induce l’acrobazia di chi lo ascolta.</p>
<p style="text-align: justify;">Al Tact si passa da Dostoevskij nella prima sera a James Barrie (Cut di Trieste), ai testi originali del Grupo Subsuelo Teatro (Argentina), al Satiricon di Petronio (Le Groupe de Théâtre Antique dalla Svizzera) e ancora Gogol (Ànima Eskola dalla Spagna), Cechov (Studiya Project dalla Russia) e un Annibale Ruccello (Itinerarte da Napoli).</p>
<p style="text-align: justify;">Grandi classici per lo più, monumenti della letteratura mondiale con cui attori – più o meno giovani – provano a cercare il proprio teatro. Inseguono l’immagine dietro la parola, spesso la usano come ancora, ma bella tra loro è la consapevolezza di un inizio di un percorso per cui non sono disposti a negoziare.</p>
<p style="text-align: justify;">Degno di nota lo spettacolo Darkness degli iraniani Carbon Theatre Company che ci ha raccontato la vicenda dell’imperatore Nader Shah Afshar (il cosiddetto Napoleone d’Asia) come la tragedia di un popolo, dove la distanza tra pubblico e privato esibisce tutto il cortocircuito di un paese ferito. Dall’altra parte il Grupo Subsuelo Teatro con il suo Piso 35, testo ironico e attualissimo, recupera il debito di quel teatro dell’assurdo beckettiano ma creando un buon mash-up con il dramma di una generazione su cui pesa il senso dell’abisso under 35.</p>
<p style="text-align: justify;">Il Tact di Trieste nasce come idea di formazione permanente, sia nella prassi organizzativa con un direttore pronto ad accogliere consigli per un’auspicata e futura crescita del festival, sia come apprendimento per i giovani attori ospitati. La serie di workshop offerti agli allievi che vengono da scuole e accademie di diversi paesi (non solo d’Europa, ripetiamolo) è infatti uno strumento che può innescare la consapevolezza che la tecnica debba necessariamente trovare un indirizzo chiaro per costruire un senso del proprio teatro.</p>
<p style="text-align: justify;">Per molti è l’inizio di un percorso per capire quanto le tecniche d’attore siano efficaci quando diventano miccia per una scoperta. Spesso si è parlato delle grandi tradizioni di teatro orientale (penso al Nō, al Kabuki, all’Opera di Pechino) come insieme di tecniche estremamente formalizzate; dall’altra parte il teatro occidentale è sembrato spesso in balia dello psicologismo da rintracciare all’interno di una forma che per molto tempo è stata quella letteraria. La forma può essere un’arma? O è una gabbia? Dove rintracciare la propria zona creativa una volta che si padroneggia una tecnica?</p>
<p style="text-align: justify;">Il tavolo di lavoro del festival TACT, che è una babele di lingue e culture, deve puntare sulla piena coscienza della contaminazione (e già ne avevamo parlato in questo articolo), ma ancor più sulla consapevolezza che “le scuole” debbano essere trampolino anche per far proprie le parole d’altri. Perché padroneggiare una tecnica non sia affatto un punto di arrivo, ma una condizione per dialogare con un maestro che non c’è. Allora i testi di Gogol, Dostoevskij, Cechov e di tutti quei pilastri della nostra cultura riusciranno a parlarci ancora, anche senza sovrattitoli, quando noi saremo disposti a cercare l’acrobazia attraverso le loro storie universali. (  <a href="http://www.teatroecritica.net" target="_blank" rel="noopener">http://www.teatroecritica.net</a>  )</p>
<p>&nbsp;</p>
<p class="bg-success firma_articolo firma_articolo_redazione">    Redazione<br />
  (11/06/2018)</p>
<p>&nbsp;</p>
<p>&nbsp;</p>
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		<title>Anna Curiel Fano, personalità forte e indipendente</title>
		<link>https://www.viacialdini.it/cultura/anna-curiel-fano-personalita-forte-indipendente</link>
		
		<dc:creator><![CDATA[Michele Luongo]]></dc:creator>
		<pubDate>Wed, 26 Apr 2017 07:00:46 +0000</pubDate>
				<category><![CDATA[CULTURA]]></category>
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		<category><![CDATA[anticonformismo]]></category>
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					<description><![CDATA[<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2017/04/Anna-Curiel-Fano-Giorgio-ed-io-150x150.jpg"/><p>Anna Fano: una donna “emancipata” nella Trieste del primo Novecento. Ma questo non lese la sua femminilità né la sua capacità di essere compagna e fedele. di Marina Torossi Tevini Anna Curiel Fano è una delle figure più interessanti della Trieste ebraica di inizio Novecento, lo stesso milieu sociale e culturale a cui appartennero Saba, Voghera e Giotti. Ne fece parte sia in modo diretto, attraverso quello che scrisse, sia&#8230; </p>
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			<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2017/04/Anna-Curiel-Fano-Giorgio-ed-io-150x150.jpg"/>							<content:encoded><![CDATA[<h2 style="text-align: justify;"><strong>Anna Fano: una donna “emancipata” nella Trieste del primo Novecento. Ma questo non lese la sua femminilità né la sua capacità di essere compagna e fedele.</strong></h2>
<h2 style="text-align: justify;"><em>di Marina Torossi Tevini </em></h2>
<p style="text-align: justify;"><a href="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2017/04/Anna-Curiel-Fano-Giorgio-ed-io.jpg" data-rel="lightbox-gallery-nyyfbyAO" data-rl_title="" data-rl_caption="" title=""><img decoding="async" class="alignleft size-full wp-image-8650" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2017/04/Anna-Curiel-Fano-Giorgio-ed-io.jpg" alt="" width="250" height="385" srcset="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2017/04/Anna-Curiel-Fano-Giorgio-ed-io.jpg 250w, https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2017/04/Anna-Curiel-Fano-Giorgio-ed-io-195x300.jpg 195w" sizes="(max-width: 250px) 100vw, 250px" /></a>Anna Curiel Fano è una delle figure più interessanti della Trieste ebraica di inizio Novecento, lo stesso milieu sociale e culturale a cui appartennero Saba, Voghera e Giotti. Ne fece parte sia in modo diretto, attraverso quello che scrisse, sia in modo indiretto, attraverso le molteplici relazioni di amicizia e di parentela con i componenti di quel gruppo. Attraverso le vicende della sua vita possiamo cogliere molti aspetti interessanti del primo Novecento triestino e anche, e soprattutto aspetti della sua personalità forte e indipendente. Sorprendentemente moderna per i tempi.</p>
<p style="text-align: justify;">Nata il 20 aprile 1901 da Aronne di Samuele e dalla sua seconda moglie Maria Morpurgo, frequentò il Liceo Femminile e fin da giovane dimostrò doti di anticonformismo e di profonda intelligenza. Amava l’indipendenza ed era sensibile, tenace, conscia di sé, capace di autoanalisi approfondite anche se, come ci testimonia Saba, un po’ superba e testarda. Visse a Milano e a Roma e nel 1931 sposò il filosofo triestino Giorgio Fano, docente all’Università di Roma e studioso della filosofia di Croce, del pensiero indiano e dell’origine e della natura del linguaggio, di cui fu per molti anni fedele e intelligente collaboratrice.</p>
<p style="text-align: justify;">Dopo la morte del marito nel 1963, si trasferì a Bologna dal 1965 al 1990. Scrisse numerosi racconti, alcuni dei quali pubblicati su giornali e riviste, e un migliaio di pagine di carattere autobiografico rimaste inedite sinché il figlio Guido non pubblicò nel 2005 il bel volume Giorgio e io. Una storia d’amore nella Trieste del primo Novecento (Marsilio editore) che le dà finalmente la giusta collocazione e il giusto riconoscimento nel panorama culturale del tempo.</p>
<p style="text-align: justify;">Leggendo Anna Fano in questo libro che ripercorre i ricordi di una vita, ci troviamo davanti una donna che precorre i tempi, perché “Annetta” non si rifugiava in ruoli subalterni, non rinunciava alla propria personalità, era una donna che non temeva di rompere schemi di comportamento consolidati da generazioni e aveva avuto il coraggio in tempi non facili, di dialogare con fermezza all’interno della sua famiglia per seguire il suo ideale di donna “emancipata”. In bilico tra l’essere donna o persona aveva sempre optato per la seconda opzione.</p>
<p style="text-align: justify;">Ma questo non lese la sua femminilità né la sua capacità di essere compagna e fedele sostenitrice di un uomo come Giorgio Fano, dotato di grande fantasia, creatività, rara profondità di pensiero, e anche di uno straordinario entusiasmo giovanile che gli permetteva di scherzare con i bambini e di prendere la vita alla leggera. La vita di Anna accanto a lui fu drammatica e sofferta; ma anche largamente gratificante e tale da poter insegnare molto anche a coloro che la leggono oggi. Pubblicò il racconto lungo Noi ebrei che narra la storia di un gruppo di famiglie ebraiche che si erano rifugiate in Abruzzo della seconda guerra mondiale. Anna con il marito e il figlio Guido si era stabilita in diverse località abruzzesi durante la guerra fino al giugno del 1944, quando Roma fu liberata dagli anglo-americani. Il racconto è la cronaca di quel soggiorno: un resoconto sereno, privo di pur giustificabili rancori, ricco di personaggi e punteggiato di numerosi piccoli episodi, da cui emergono le preoccupazioni, le ansie e le paure dell’epoca. La narrazione abbonda di notazioni umanamente affettuose e dolorose, di nitide variazioni paesaggistiche, di riflessioni storiche; né mancano, talora, le tonalità ironiche e scherzose che sono caratteristiche della sua scrittura e si trovano copiose anche nel libro di memorie che il figlio ha dato alle stampe. È autrice anche di una commedia inedita Vittoria.</p>
<p style="text-align: justify;">Giorgio e io si inserisce nel genere diaristico-memorialistico in cui le donne triestine hanno dato il meglio di sé. Si pensi a “Lettere a Scipio” di Elody Oblath, che percorre strade per qualche aspetto analoghe ad Anna, ponendosi come interlocutrice di pari livello rispetto a un uomo dalle capacità eccezionali come Scipio Slataper. In Elody vanno di pari passo amore romantico e confidenza, amicizia e stima, componenti che si riscontrano anche nella relazione tra Anna e Giorgio. Entrambi, Elody e Anna furono donne intraprendenti, volitive, sportive che credevano nell’amorosa amicizia e rifuggivano dalla passività tradizionalmente imposta alle donne.</p>
<p style="text-align: justify;">L’avere un ruolo comprimario, poter prendere decisioni sulla propria vita venne indubbiamente facilitato dal’ambiente in cui vissero e sarebbe stato impensabile all’epoca al di fuori dell’ambiente triestino ed ebraico.</p>
<p style="text-align: justify;">La Trieste mercantile del primo Novecento lasciava alla donna molti margini di libertà che altrove le erano negati, anche se le chiedeva di assumersi delle responsabilità e dei pesi.</p>
<p style="text-align: justify;">In entrambe, in Elody e in Anna, l’amore, che ha parte grande, viene visto come una “forma privilegiata di conoscenza del mondo” e attraverso i sentimenti propri e degli altri si cerca di sondare fino alle radici più nascoste l’animo proprio e altrui con grande chiarezza e fine autocoscienza, senza coprirsi gli occhi e sviare la verità.</p>
<p style="text-align: justify;">Lo spirito di indipendenza, un rapporto agonico e confidenziale tra i partner, la passione per ogni forma di conoscenza sono comuni a entrambe, anche se le esperienze umane furono molto diverse. Nel caso di Anna fu l’amore per Giorgio Fano, amore iniziato quando la ragazzina aveva appena dodici anni e durato tutta la vita, che determinò la sua esistenza e le sue scelte. Giorgio Fano era di sedici anni più grande di lei e ovviamente percorse una via che lo portò in molti momenti lontano da Anna, si fidanzò, si sposò, ebbe due figli. Le loro strade si incrociarono e si allontanarono più volte, ma iniziarono a intersecarsi a partire dai diciotto anni della Curiel. A quel tempo Anna era già in grado di fare le sue scelte, di prendere o lasciare un lavoro, di decidere la propria vita – e l’ambiente familiare ebraico in questo senso era molto rispettoso della sua capacità di giudizio e della sua maturità, anche se ovviamente tutti le sconsigliavano di impelagarsi in una storia difficile e senza grandi prospettive.</p>
<p style="text-align: justify;">L’ambiente ebraico influì sulla sua tendenza a un’autoanalisi esasperata, sul gusto a un’analisi psicologica molto spregiudicata che sarebbe stata impensabile in un’autrice di altra estrazione culturale, almeno in Italia.</p>
<p style="text-align: justify;">L’ambiente culturale ebraico a Trieste agli inizi del Novecento era numericamente abbastanza esiguo, ma non per questo poco significativo. Pensiamo che da quel milieu uscirono personaggi del calibro di Svevo o di Saba. Certo, Svevo si battezzò e Saba era figlio di un non ebreo. Ma entrambi, pur lontani dalla cultura ebraica in senso stretto, conservarono una certa psicologia ebraica, trasmessa attraverso la tradizione e le abitudini familiari. È presente in Svevo uno psicologismo molto fine, molto dettagliato e in Saba un tipo di sensibilità e delle peculiarità che si possono difficilmente comprendere se non si tiene conto del sangue parzialmente ebraico del poeta. Anche Anna Curiel Fano dimostra capacità raffinate di autoanalisi e di psicologismo.</p>
<p style="text-align: justify;">Il libro Giorgio ed io dà un importante contributo anche alla maggior conoscenza di personaggi famosi come Giorgio Voghera, Saba, Giotti, tutti legati da vincoli di amicizia e di parentela alle famiglie Curiel e Fano. Giorgio Voghera era figlio di Guido Voghera e imparentato con Anna. Lei, di alcuni anni maggiore, giocava spesso con il bambino, che definisce un “genietto” visto che a sei anni sapeva già citare a memoria brani della Divina Commedia, anche se era inadatto a qualsiasi attività sportiva. La giovane Anna invece era una ragazzina scatenata, si arrampicava sugli alberi, faceva lunghe nuotate, una vera amazzone triestina. Con la famiglia di Virgilio Giotti era invece imparentato Giorgio Fano, che sposò Maria, sorella di Virgilio.</p>
<p style="text-align: justify;">Spesso nelle pagine di Anna si parla dell’amicizia tra Guido Voghera e Giorgio Fano, assai attivi a Trieste come conferenzieri e conosciuti per le loro idee filosofiche spregiudicate e per i loro molteplici interessi intellettuali e di Saba e Giotti che discutevano alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale di italianità (tutto il gruppo ebraico triestino era fortemente filoitaliano e irredentista).</p>
<p style="text-align: justify;">Una figura quella di Anna Fano per certi aspetti di complemento nel variegato panorama della Trieste del primo Novecento, ma non per questo meno affascinate e ricca di spunti di inquietante modernità. (  <a href="https://viadellebelledonne.wordpress.com/" target="_blank"><u>https://viadellebelledonne.wordpress.com/</u></a>  )</p>
<p style="text-align: justify;">Anna Fano &#8220;Giorgio e io&#8221; Un grande amore nella Trieste del primo &#8216;900 Ed. Marsilio, 2005, Pag. 344,EAN:9788831786898</p>
<p>&nbsp;</p>
<p class="bg-success firma_articolo firma_articolo_generica">    di Marina Torossi Tevini<br />
      (26/04/2017)</p>
<p>&nbsp;</p>
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		<title>Pagine su pagine, una produzione critica</title>
		<link>https://www.viacialdini.it/cultura/pagine-pagine-produzione-critica</link>
		
		<dc:creator><![CDATA[Michele Luongo]]></dc:creator>
		<pubDate>Mon, 24 Oct 2016 10:00:35 +0000</pubDate>
				<category><![CDATA[CULTURA]]></category>
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					<description><![CDATA[<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2016/10/Pagine-su-pagine-produzione-critica-150x150.jpg"/><p>La scrittura di Roberto Pagan non è mai avvolta in compiaciute e verbose spirali, come accade in saggi e recensioni dal linguaggio oscuro e criptico e di difficile interpretazione. Un mare d&#8217;inchiostro. pagine su pagine e altri cabotaggi. di Ombretta Ciurnelli   Pagine su pagine , con il volume “Un mare d’inchiostro”  Roberto Pagan ha raccolto la sua produzione critica degli ultimi quindici anni: quasi novanta testi apparsi in riviste&#8230; </p>
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 <em>di Ombretta Ciurnelli</em></h2>
<p style="text-align: justify;"> </p>
<p style="text-align: justify;"><a href="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2016/10/Pagine-su-pagine-produzione-critica.jpg" data-rel="lightbox-gallery-PUA3DWNs" data-rl_title="" data-rl_caption=""><img decoding="async" loading="lazy" class="alignleft wp-image-6979" title="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2016/10/Pagine-su-pagine-produzione-critica.jpg" alt="Pagine-su-pagine-produzione-critica" width="300" height="440" srcset="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2016/10/Pagine-su-pagine-produzione-critica.jpg 375w, https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2016/10/Pagine-su-pagine-produzione-critica-205x300.jpg 205w" sizes="(max-width: 300px) 100vw, 300px" /></a>Pagine su pagine , con il volume “Un mare d’inchiostro”  Roberto Pagan ha raccolto la sua produzione critica degli ultimi quindici anni: quasi novanta testi apparsi in riviste o destinati a prefazioni, a pubbliche letture, a conferenze e presentazioni o donati ad amici scrittori, a volte senza lasciare di sé una traccia bibliografica.</p>
<p style="text-align: justify;">Un mare d’inchiostro non nasce dalla volontà di esibire la propria acribia, il proprio acume critico. Non sarebbe nel carattere dell’Autore, discreto e riservato. Vi si vede piuttosto il desiderio, in un’età ormai non più verde, di capire il senso di un percorso di scrittura critica e, come dice l’Autore stesso, di intravedere un disegno, un’architettura che si è modellata negli anni, […] secondo un profilo che rendesse coeso un discorso nato in frammenti (pag. 4). Da qui anche l’alternarsi di studi su opere letterarie di autori contemporanei o della nostra letteratura a testi in cui Pagan racconta il suo percorso poetico e di scrittura e gli incontri che hanno segnato la sua formazione, quasi in un’autobiografia intellettuale e poetica. E va subito detto che si tratta di un percorso culturale e letterario ricco e privilegiato che ha inizio nella Trieste degli anni Cinquanta, partecipando, ancora giovane studente universitario, ai ‘martedì’ di Anita Pittoni e conoscendo direttamente poeti e scrittori, come Saba, Stuparich, Giotti e tanti altri. Un felice avvio alla poesia e alla letteratura in quella Trieste dalla «scontrosa grazia» (U. Saba), ricordata e raccontata anche nelle raccolte Àlighe (Roma, Edizione Cofine, 2011) e Robe de no creder (Roma, Edizioni Cofine, 2013); una Trieste già crogiolo e crocevia di culture, terra di frontiera, città che forse più di altre «è letteratura, è la sua letteratura» (A. Ara-C. Magris), una città in cui è maturata una cultura mitteleuropea che ha espresso i temi centrali della crisi del Novecento, divenendo modello di riferimento ben oltre i suoi confini.</p>
<p style="text-align: justify;">Alle intense esperienze giovanili è seguita una lunga carriera di insegnante di Liceo dapprima nel grigiore senza spiragli (pag. 267) della provincia e poi, dal 1969, a Roma dove, pur non essendosi mai romanizzato (pag. 268), Roberto Pagan si è sentito ben accolto, grazie alla cordialità degli abitanti e a quel pizzico di spirito meridionale che ti fa sentire a tuo agio, amico tra gli amici (pag. 269), anche se un’unghia di […] intolleranza asburgica (ivi) non ha mancato di suscitare in lui perplessità di fronte all’esuberanza o alla chiassosità romana.</p>
<p style="text-align: justify;">A Roma il nostro Autore è entrato in contatto con il ricco ambiente artistico-letterario proprio quando la sua musa immusonita sembrava essersi un po’ risvegliata dal letargo (pag. 270), giungendo, tuttavia, tardi alla pubblicazione dei suoi versi, quasi alle soglie del mezzo secolo di vita, con la prima raccolta Sillabe (Roma, Il ventaglio, 1983). Ma la sua vena creativa si era espressa intensamente già a partire dagli anni giovanili, quando in un apprendistato assolutamente solitario e autogestito (pag. 274) aveva prodotto centinaia e centinaia di versi che egli considera, tuttavia, robaccia irrimediabilmente scolastica, […] senza nessuna consapevolezza d’arte (ivi).</p>
<p style="text-align: justify;">Nella grande capitale Roberto Pagan ha portato con sé, oltre al ricordo vivo della bora, della pietra del Carso e dell’azzurro del mare, di cui si era nutrito nelle sue estati giovanili, anche il dialetto un po’ selvatico, gutturale, sparato a strappi (pag. 268), parlato fino all’età di venticinque anni, raccontato anche nel testo “Il dialetto di Trieste come lingua franca tra Svevo e Joyce”, e riemerso con forza, dopo una decina di sillogi in lingua, nelle sue ultime raccolte poetiche: Àlighe e Robe de no creder, perché ci sono cose che solo il dialetto sa dire, situazioni che, fuori dal dialetto, non hanno né corpo né spessore, parole e voci che solo in dialetto conservano asprezza e dolcezza insieme, carne e sangue, colori e sapori e profumi di un mondo o di una stagione (pag. 232).</p>
<p style="text-align: justify;">Nella confusa e disordinata realtà della capitale Pagan ha conservato di Trieste anche altro, come lui stesso dice: è probabile che mi fosse rimasto attaccato anche qualcosa dell’ironia di quella gente che così spesso serve a mascherare le inquietudini di un mondo con troppa storia e troppa geopolitica alle spalle (pag. 268). Nasce forse da questo la particolare cifra poetica di Pagan, evidente anche nella sua ultima raccolta, Robe de no creder, in cui risalta «una qualità espressiva intrisa di ironia che riconduce l’uomo al perché delle cose e della sua stessa esistenza e in cui anche l’episodio di vita quotidiana è nobilitato da ragioni riflessive» (P. Civitareale).</p>
<p style="text-align: justify;">Il tema dell’ironia, insieme a quello del comico, diviene oggetto d’indagine nei nove testi raccolti nella prima sezione di Un mare d’inchiostro, quella che appare più compatta sul piano critico, e che è divisa in due parti: “I cimenti di Talìa” e “Alle radici del comico”, con l’attenzione rivolta dapprima a opere letterarie in cui, lontano da uno spirito giullaresco e sguaiato, si tenta di conciliare Talìa con Calliope, […] insomma il sorriso dell’arguzia con l’eleganza delle forme e la signorilità della lingua (pag. 9); si tratta di opere di grandi autori della storia letteraria italiana che hanno colto nell’ironia una forma espressiva squisita, ma anche ardua e complessa, mediata com’è dal filtro dell’intelletto (ivi): le Satire di Ariosto, Il Giorno di Parini, il poemetto Paralipomeni della Batracomiomachia di Leopardi, la  scrittura ironica e desublimante (pag. 33) di Gozzano e, infine, la produzione di Montale da Satura ai Diari. Nella seconda parte Pagan considera le radici del comico:  dall’istrionismo di Cecco Angiolieri al riso lunatico di Pulci, dall’accidia cortigiana di Berni alla phantasia plus quam phantastica (pag. 66) di Folengo.Sono tutti saggi apparsi nella rivista “pagine”, in cui è stata pubblicata la maggior parte dei testi e delle recensioni raccolte in Un mare d’inchiostro; da qui il senso del complemento del titolo del libro: Pagine su ‘pagine’ e altri cabotaggi.</p>
<p style="text-align: justify;">La scrittura di Roberto Pagan non è mai avvolta in compiaciute e verbose spirali, come accade in saggi e recensioni dal linguaggio oscuro e criptico e di difficile interpretazione. La sua prosa è piana, l’argomentazione delle ipotesi critiche chiara, in una struttura capace di dare leggerezza alla parola ‘critica’, intesa come sguardo, come tensione alla comprensione intima e profonda della poesia e che sa risolversi spesso in racconto.</p>
<p style="text-align: justify;">Un mare d’inchiostro evidenzia, inoltre, un profondo amore per la letteratura e, più in generale, per l’arte; Pagan scruta acutamente le relazioni tra poesia, musica, pittura e architettura, cogliendo in profondità lo spirito dei tempi. Valga per tutti il testo “Endecasillabo mon amour: le mille vite di un seduttore” in cui, nella forma metrica più frequentata dai poeti della nostra Letteratura, ravvisa consonanze e relazioni con stili architettonici o con la musica: dallo stile pregotico degli stilnovisti alla solida struttura del verso dantesco che ricorda l’architettura romanica sino ad arrivare, nel tempo, all’endecasillabo foscoliano che suona sinfonico (pag. 94).</p>
<p style="text-align: justify;">Dal verso principe della letteratura la riflessione di Pagan passa a considerare anche l’haiku, una forma metrica lontana dalla nostra tradizione, di cui lui stesso è autore (si veda Miniature di bosco, 101 haiku, Roma, Zone, 2002) e nel testo “Haiku, uno gnomo poliglotta e contorsionista”emergono da un lato le ragioni del successo e dall’altro una garbata critica dei travisamenti o adattamenti di cui è stato oggetto.</p>
<p style="text-align: justify;">In “Una cenerentola (stizzosa) chiamata poesia” l’attenzione si posa sul ruolo e sul significato della poesia nella società moderna in cui alla cenerentola stizzosa sembra mancare il pubblico, sempre più attratto dai parametri di una società dominata dai miti dell’efficienza, dell’attivismo, del consumo (pag. 118). Questa la domanda che Pagan si pone: si può ipotizzare che la poesia, per tanti secoli vissuta nell’ambito della corte, o del cenacolo, o dell’accademia [&#8230;] e poi sopravvissuta, sia pure con qualche stento, all’affermarsi della civiltà borghese, trovi oggi una sua collocazione nell’epoca della seconda rivoluzione industriale e tecnologica e delle grandi masse? (pag. 118). Una domanda che riporta alla memoria il discorso di Montale a Stoccolma, nel 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel; il poeta genovese si chiedeva: «potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?». Montale credeva che la produzione di poesia «bellettristica» sarebbe cresciuta a dismisura, ma che non ci sarebbe mai stata morte per quella poesia «che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale». Pagan, dal canto suo, sente la poesia del nostro tempo come una zattera affollata […] che spesso dà l’impressione di andare alla deriva, senza una bussola, in balia dei venti e dei marosi, incerta sul suo stesso destino (pag. 115).</p>
<p style="text-align: justify;">I testi critici raccolti in Un mare d’inchiostro sono divisi in quattro sezioni; alla prima, “I cimenti di Talìa &#8211; Alle radici del comico”, a cui si è già fatto cenno, segue “Saggi e vagabondaggi” in cui si alternano scritti di tono più leggero a riflessioni di maggiore respiro, come, ad esempio, quelle su Lucrezio, Armando Patti e Achille Serrao. Nella terza sezione, “Quadrante Nord-est: da dove soffia la bora”, sono raccolti testi sul milieu culturale triestino e sulla propria formazione umana e letteraria, apparsi in prevalenza nella rubrica “Cronache da nord-est” nella rivista “I fiori del male”. Infine, la quarta sezione, “Il Parnaso degli amici”, contiene recensioni di opere in prosa o in versi di scrittori spesso amici dell’Autore. In Un mare d’inchiostro si rintracciano, infatti, anche storie di amicizia, nella condivisone di interessi, ideali, letture. Per non far torto a nessuno, ci limitiamo a ricordare soltanto quella con Vincenzo Anania, poeta e direttore della rivista “pagine”; di Anania, oltre alle qualità umane, Pagan apprezza la poesia tutta sangue e cose, che non ama indugi o astrattezze, che muove spesso dalla quotidianità del vissuto, […] densa, scorciata, […] con una naturale propensione alla pronuncia aforistica, gnomica, ma senza moralismi (pag. 295).</p>
<p style="text-align: justify;">Nella brillante prosa della “Nota d’autore” che apre il volume Pagan, dopo aver ricordato gli antichi scribi che sulle pietre runiche, con fitti grovigli colorati di rosso, incidevano le gesta e le memorie dei leggendari capi vichinghi e il lavoro degli amanuensi, sommersi dalla mole delle preziose pergamene miniate, confessa di voler essere scriba di se stesso per lo scrupolo di raccogliere e ordinare memorie, pensieri e riflessioni nascosti in quelle piccole icone che navigano nell’apparente calma dell’azzurro di un monitor, quasi per una missione, un debito (pag. 4) da pagare non solo a se stesso – per capire il senso di tanto mare d’inchiostro – ma anche ai lettori e a tutti quegli amici che hanno creduto in lui.</p>
<p style="text-align: justify;">E tutto ciò in bilico tra una malinconica fantasticheria, che si lega al ricordo di ciò che è passato, e quell’attesa, che è in ognuno di noi, di un naufragio in agguato o presagito come incombente (pag. 5), ma sempre con il guizzo di un sorriso e quel “che” di ironia che così spesso serve a mascherare le inquietudini (pag. 268) che ci accompagnano nella vita.</p>
<p style="text-align: justify;">Roberto Pagan &#8220;Un mare d&#8217;inchiostro. Pagine su pagine e altri cabotaggi&#8221; , Ed.Cofine, Roma, 2015. pag. 496, Euro,25,00, ISBN 978-88-98370-19-1-  (  <a href="http://www.poetidelparco.it" target="_blank">http://www.poetidelparco.it </a>  )</p>
<p>&nbsp;</p>
<p class="bg-success firma_articolo firma_articolo_redazione">    di Ombretta Ciurnelli <br />
         (24/10/2016)</p>
<p>&nbsp;</p>
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		<title>Evita, una icona</title>
		<link>https://www.viacialdini.it/inscena/evita-una-icona</link>
		
		<dc:creator><![CDATA[Michele Luongo]]></dc:creator>
		<pubDate>Wed, 15 Apr 2015 10:26:31 +0000</pubDate>
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					<description><![CDATA[<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2015/08/Evita_scena-canto-150x150.jpg"/><p>Un grandioso show, emozionante, coinvolgente, la notte di  Evita al Rossetti. Non piangere per me Argentina. Il musical un capolavoro  di Tim Rice, Bob Tomson e Bill Kemwright. di Michele Luongo     Trieste –  Evita : Non piangere per me Argentina, il musical, il capolavoro,  di Tim Rice, Bob Tomson e Bill Kemwright, musiche di Andrew Lioyd Webber al Teatro Politema Rossetti di Trieste, in anteprima nazionale. Uno spettacolo entusiasmante,&#8230; </p>
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			<img width="90" height="90" align="left" hspace="5" vspace="5" alt="" class="" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2015/08/Evita_scena-canto-150x150.jpg"/>							<content:encoded><![CDATA[<h2 style="text-align: justify;"><strong>Un grandioso show, emozionante, coinvolgente, la notte di  Evita al Rossetti. Non piangere per me Argentina. Il musical un capolavoro  di Tim Rice, Bob Tomson e Bill Kemwright</strong>. <br /><em>di Michele Luongo</em></h2>
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<figure id="attachment_3134" aria-describedby="caption-attachment-3134" style="width: 350px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2015/08/Evita_scena-canto.jpg" data-rel="lightbox-gallery-yVZjUHfl" data-rl_title="" data-rl_caption="" title=""><img decoding="async" loading="lazy" class="wp-image-3134" src="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2015/08/Evita_scena-canto.jpg" alt="Evita_scena-canto" width="350" height="232" srcset="https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2015/08/Evita_scena-canto.jpg 600w, https://www.viacialdini.it/wp-content/uploads/2015/08/Evita_scena-canto-300x199.jpg 300w" sizes="(max-width: 350px) 100vw, 350px" /></a><figcaption id="caption-attachment-3134" class="wp-caption-text">Trieste Teatro Rossetti, Evita , Abigail Jaye</figcaption></figure>
<p style="text-align: justify;"><strong>Trieste</strong> –  Evita : Non piangere per me Argentina, il musical, il capolavoro,  di Tim Rice, Bob Tomson e Bill Kemwright, musiche di Andrew Lioyd Webber al Teatro Politema Rossetti di Trieste, in anteprima nazionale. Uno spettacolo entusiasmante, che ti prende, trascina sin dall’inizio , dal momento che si alza il sipario fino all’ultimo suono quando poi anche i dieci minuti di applausi a scena aperta diventano parte del musical EVITA. <br />La storia di Evita Duarte, giovane argentina, nata povera cerca di ripercorre la scala sociale con il solo mezzo che conosce: l’arte di essere donna. Cantante, attrice , fino alla conoscenza e al legame con il colonnello Juan Domingo Peròn, personaggio emergente nel regime militare, che nel 1945 diviene Presidente dell’Argentina. Eva Peron è donna molto acuta , conosce l’arte della comunicazione. Affascina, entusiasma le masse, diventa una icona, il popolo l’ama.</p>
<p style="text-align: justify;">Evita/Abigail Jaye, è interprete meravigliosa, coinvolgente, d’intensa espressività. Il Che/Mark Powell, completamente  a suo agio nel ruolo di collegamento per  tutto il musical, puntiglioso, provocante ci accompagna nella storia, nello spettacolo.</p>
<p style="text-align: justify;">L’orchestra  diretta da David  Steadman, ha saputo dare e tenere il ritmo ad alto livello con magistrale  perfezione. Mentre la scenografia di Matthew Wright ci ha avvolto con sapienza e utilità. Evita,  uno spettacolo da non perdere, come Cats, Jesus Crist Superstar, sono il top nel mondo,  la storia del Musical.</p>
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<p class="bg-success firma_articolo firma_articolo_michele">di <strong><em>Michele Luongo </em></strong> ©Riproduzione riservata<br />                  (15/06/2010)</p>
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