Forum vitivinicolo della Cia. I supervitigni resistenti alle malattie bloccati dalla burocrazia. Il punto chiave è che far passare le innovazioni varietali dal laboratorio alla coltivazione in campo si sta rivelando impresa tutt’altro che semplice.
di Giorgio dell’Orefice
I nuovi supervitigni saranno anche resistenti alle malattie ma nulla possono contro la burocrazia italiana ed europea che li sta invece affossando rendendo di fatto impossibile il loro passaggio dal laboratorio nel quale sono stati messi a punto al campo dove invece potrebbero un grande contributo nell’abbattere il ricorso alla chimica. È quanto è emerso dal Forum nazionale vitivinicolo 2019 della Cia-Agricoltori italiani a Firenze.
Il punto chiave è che far passare le innovazioni varietali dal laboratorio alla coltivazione in campo si sta rivelando impresa tutt’altro che semplice. A cominciare dai vitigni resistenti a malattie come peronospora e oidio. Si tratta di dieci varietà selezionate attraverso incroci dall’Università di Udine e dai Vivai cooperativi Rauscedo, tutte discendenti da vitigni internazionali (Soreli, Sauvignon, Fleurtai, Merlot, Cabernet solo per citarne alcuni) e che sono state inserite nel registro nazionale delle varietà di vite ma che per passare alla fase della coltivazione in campo necessitano dell’approvazione da parte di 19 regioni e due provincie autonome. Insomma non proprio una strada spianata.
A queste vanno aggiunte le nuove frontiere della cisgenetica e del genome editing sui quali si è invece abbattuta la scure della Corte di giustizia Ue che nel luglio dello scorso anno ha equiparato queste tecniche (in grado di aumentarne la resistenza ai patogeni) agli Ogm assoggettandoli quindi alla rigida disciplina, e al complicato iter di analisi e controlli, prevista prima dell’immissione in commercio di organismi geneticamente modificati.
«Va fatta chiarezza – ha spiegato il responsabile viticoltura del Crea, Riccardo Velasco – abbiamo oggi tre differenti famiglie di innovazioni: l’incrocio tradizionale, la transgenesi (che vede l’inserimento nella pianta di un gene estraneo) e la cisgenesi (con la quale viene inserito un gene di un organismo della stessa specie). Strettamente legata a quest’ultima è poi il genome editing col quale abbiamo messo a punto tecniche che consentono con maggior precisione l’intervento sul Dna. Cisgenesi e genome editing sono due tecniche di mutagenesi che non sono tanto distanti dagli incroci da sempre consentiti e accettati e sono cosa ben diversa dagli Ogm. Ma purtroppo a Bruxelles non la pensano così».
«I principali problemi che abbiamo oggi – ha aggiunto Michele Morgante docente dell’Università degli studi di Udine – sono legati a un quadro normativo che complica fare innovazione in agricoltura. La vite è la varietà che ha meno utilizzato le scoperte effettuate nel campo del miglioramento genetico. Un dato chiave dal quale partire è che in viticoltura si utilizza il 65% dei funghicidi utilizzati in agricoltura in Europa. Le nuove tecnologie – cisgenesi e genome editing – possono preservare le varietà esistenti rendendole resistenti. Ma sotto questo profilo il principale problema è che in Europa la cisgenesi è trattata alla pari degli Ogm il che costringe ad affrontare grandi costi dovuti alle analisi immunologiche e tossicologiche necessarie prima dell’immissione in commercio dei relativi prodotti. Ma la domanda da farsi è: se non immetto nella catena alimentare un gene estraneo perché devo effettuare le verifiche e le analisi richieste nel caso in cui lo immettessi»?
Al Forum vitivinicolo della Cia erano presenti anche diversi viticoltori che hanno portato la propria esperienza e le idee del mondo produttivo riguardo all’innovazione varietale. «La viticoltura in genere e quella italiana in particolare – ha spiegato Riccardo Ricci Curbastro produttore in Franciacorta nonché presidente della Federdoc – sono vecchie di secoli se non millenni. Anche all’inizio del secolo scorso di fronte a un’epidemia di peronospora i viticoltori italiani ed europei furono costretti a innestare le barbatelle sulla vitis vinifera americana. Tutta la nostra odierna viticoltura discende da quell’innesto. Anche in quel caso avvenne una contaminazione che portò incrociare varietà geneticamente diverse. Come mai nessuno si è mai scandalizzato questo? E perché dovremmo affrontare lo stesso tema diversamente oggi? Io nella mia azienda – ha aggiunto Ricci Curbastro – ho impiantato alcune varietà resistenti. I vini che ne derivano sono complessi, complessi soprattutto da spiegare al consumatore. Di certo occorre lavorarci su. Ma se non cominciamo a farlo rischiamo di restare indietro rispetto ai concorrenti. E anche i consorzi Doc che rappresento sono dell’idea che la strada da percorrere sia quella di provare. Di certo nei vigneti che ho impiantato con queste varietà in 8 anni non ho mai effettuato un trattamento chimico. Quasi me ne sono dimenticato».
A questa frontiera sta guardando anche Bruxelles. «L’innovazione sarà al centro delle proposte di riforma della Pac – ha detto il capo dell’unità vino della Dg Agri a Bruxelles, Joao Onofre -. Riteniamo di avere davanti a noi due sfide: da un lato quella della sostenibilità e della riduzione dell’impatto ambientale, e dall’altro quella di individuare prodotti nuovi e nuovi mercati. Sul primo fronte riscontriamo che abbiamo regole troppo stringenti sull’innovazione varietale. Oggi abbiamo troppo pesticidi, mentre le varietà resistenti proteggono l’ambiente e consentono un taglio dei costi ai produttori. Noi non capiamo le resistenze all’introduzione di queste varietà, anche in Italia. Varietà che devono essere consentite anche per i vini Doc mentre oggi in Italia e in Francia sono escluse. Altro discorso – ha aggiunto Onofre – sono invece la cisgenetica e il genome editing. Quelli sono considerati Ogm e noi siamo convinti che il consumatore non accetterebbe prodotti per l’alimentazione umana realizzati attraverso tecniche che li equiparano agli Ogm».
«Rivendichiamo il coraggio – ha concluso il presidente della Cia-Agricoltori italiani, Dino Scanavino – di aver posto un tema ostico. Noi riteniamo che le norme vadano rispettate ma che siano anche fatte per essere modificate. Per questo se i vini prodotti da vitigni resistenti non sono più distinguibili da quelli prodotti dalla vitis vinifera diamo loro dignità, riconosciamogli un ruolo. Ad esempio prevedendo una Doc loro riservata per andare sul mercato da soli. Abbiamo un grande bisogno di ridurre l’impatto ambientale e le varietà resistenti consentono un abbattimento della chimica nel vigneto con effetti benefici sul consumatore finale ma anche degli agricoltori che tra i filari vivono e lavorano». ( https://www.ilsole24ore.com )
di Giorgio dell’Orefice
(28/01/2019)
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